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I premi di maggioranza non inficiano la democrazia

Riccardo Mazzoni
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Con il centrodestra favorito, si moltiplicano le dotte analisi sul rischio di una vittoria a valanga che consentirebbe di cambiare la Costituzione senza coinvolgere le opposizioni (eventualità peraltro già esclusa con la proposta di una bicamerale per le riforme). Il ragionamento è sostanzialmente questo: il 25 settembre si prospetta l’eventualità che una coalizione elettorale stimata intorno al 45% dei votanti, in presenza di un altro 45% di astenuti, dunque una esigua minoranza del totale, ottenga un numero di seggi abnorme, visto che l’attuale legge elettorale, anche se non prevede premi di maggioranza espliciti, con i suoi meccanismi consente una tale distorsione della rappresentanza da far impallidire perfino il vituperato Porcellum. Quella legge grazie a cui – ma allora non si levò alcun allarme – nel 2013 il centrosinistra di Bersani con il 29% dei voti ottenne il 54% dei seggi alla Camera. Allora due coerenti nostalgici del proporzionale come Formica e Macaluso proposero addirittura di alzare la quota di voti parlamentari necessaria per riformare la Costituzione, poi ci ha pensato la Consulta a imporre una soglia più alta per far scattare il premio di maggioranza.

Ma il fatto che la volontà di maggioranze relative di elettori si trasformi in maggioranza assoluta alle Camere non può essere considerato un’eresia che ci distingue dalle altre grandi democrazie occidentali. Basta fare gli esempi dei sistemi elettorali francese e britannico, che hanno entrambi impliciti e sostanziosi premi di maggioranza, tanto che alle politiche del 2001 i laburisti di Blair con il 40,7 per cento dei consensi ottennero in Parlamento 413 seggi su 659: il 62,6%, grazie a un «premio» del 19,9%. E alle successive elezioni del 2005, con il 35,2% dei voti il Labour guadagnò 356 seggi con un premio del 20%. Stesso discorso per la Francia, dove vige il doppio turno: alle legislative del 2002 Chirac divenne presidente con il 33,3 per cento dei voti e poi alle legislative fece il pieno di seggi (61,9%) con un «premio» del 28,6%. Ci sono, certo, anche eccezioni come la coabitazione forzata tra Chirac e Jospin e il mancato trascinamento della rielezione di Macron sul voto legislativo, ma nessuno ha mai messo in dubbio la democraticità di quei sistemi in cui la sproporzione tra percentuali di voto e seggi assegnati è molto alta.

La sinistra italiana non ha alcun titolo per alzare la voce, prima di tutto perché il Rosatellum è una legge che il Pd si è fabbricato in casa, e poi perché è stato il patto di governo siglato con i grillini sul taglio dei parlamentari ad accentuare la disproporzionalità del voto a causa dell’ampiezza moltiplicata dei collegi, che ha di fatto impedito il ripristino di un rapporto diretto tra eletti e territorio. Non risulta peraltro che Zingaretti e Letta abbiano spinto con convinzione per il ritorno al proporzionale, che pure i Dem avevano indicato come unico antidoto alla deriva antidemocratica. C’è sempre stato, dunque, un insopportabile velo di ipocrisia negli allarmi a intermittenza degli intellettuali progressisti sulle leggi elettorali: perfino il Porcellum di Calderoli, su cui sono stati scritti fiumi rossi di inchiostro per denunciarne la pericolosità, non era infatti molto dissimile al sistema elettorale senza preferenze approvato dai Ds, allora partito padrone della Toscana rossa.

E infine: se il Rosatellum dà alle segreterie di partito la facoltà di decidere al posto degli elettori chi dovrà sedere in Parlamento, nulla di nuovo sotto il sole: la pratica dei parlamentari nominati ha infatti caratterizzato tutta la Seconda Repubblica dopo che i referendum di Mario Segni avevano messo al bando a furor di popolo le preferenze multiple. L'esempio più eclatante resta la candidatura di Di Pietro nel Pds alle suppletive del Mugello: fu l’antesignano del paracadutato eccellente, il primo di una lista interminabile.
 

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