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Calenda-Renzi a caccia del centro. Ennesimo tentativo destinato a fallire

Riccardo Mazzoni
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Il terzo polo targato Calenda-Renzi si è presentato come l’unica, autentica novità elettorale, ma a ben guardare si tratta solo di un nuovo corollario della vecchia legge di Lavoisier applicata alla politica: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto è trasformismo. Non c’è, in effetti, termine più appropriato per definire un’alleanza siglata in extremis tra due cordialissimi avversari e che ha imbarcato dagli altri poli transfughi, sia pure eccellenti, i quali si sono accorti, con un tempismo quantomeno sospetto, che i loro partiti di provenienza o erano troppo attratti dal populismo grillino o costituivano, addirittura, un pericolo per la democrazia.

Nulla di nuovo, insomma, anche perché Calenda e Renzi, sia pure con modalità diverse, stanno ripercorrendo la strada percorsa nel 2013 da un’altra strana coppia, quella composta da Casini e Fini, che puntarono le loro fiches sul cartello elettorale «Con Monti per l’Italia», contando sul traino del premier uscente. La differenza è che Monti, pur non potendosi candidare essendo già senatore a vita, presentò una sua lista elettorale, mentre Draghi, alla cui figura fa riferimento l’attuale terzo polo, si tiene rigorosamente lontano dalla competizione elettorale. La coalizione montiana non ottenne il risultato sperato, Scelta Civica si sciolse rapidamente e Fini concluse la sua brillante carriera politica di leader della destra, punito dagli elettori per la infausta scissione di Futuro e Libertà che aveva mandato in pezzi il centrodestra. Calenda e Renzi probabilmente, superando insieme la soglia di sbarramento, riusciranno a sopravvivere politicamente come Casini, che da navigatore di lungo corso ha però da tempo abbandonato il centro per farsi eleggere dal Pd, ma fare una scommessa su Draghi senza Draghi non li porterà molto lontano, come del resto attestano tutti i sondaggi.

Il centro è un luogo impervio della politica italiana: gli archivi sono pieni di tentativi di occuparlo, ma l’unico che ci riuscì davvero fu Berlusconi nel ’94, approfittando dal vuoto lasciato dal pentapartito ghigliottinato dalla falsa rivoluzione di Mani Pulite. Poi si sono inutilmente accavallate aspirazioni centriste - dalla costituente di centro al Partito della Nazione fino alla Lista per l'Italia - che non riuscirono mai ad andare oltre i confini dell'elettorato dell'Udc. Fino al 2013, quando il pendolo di Casini si fermò su Monti, considerato allora inamovibile, proprio come Calenda e Renzi ritengono oggi inamovibile Draghi. Quanto sia difficile l’aggregazione al centro lo dimostrò la mezza discesa in campo di Montezemolo al fianco di Monti, un rassemblement di moderati in rappresentanza del mondo delle professioni, aperto alla società civile e non disposto a dare ulteriori deleghe in bianco alla classe politica. Corsi e ricorsi storici: tutti gli esperimenti centristi nati all’insegna dell’innovazione per liberare il Paese dalla gabbia del bipolarismo guerreggiato si sono sempre risolti in una difficile corsa a confermare il seggio in Parlamento a una ristretta nomenklatura in cerca di sopravvivenza. Perché il centro – secondo la geniale definizione coniata da un gigante come Helmut Kohl - «non esiste, è solo il perimetro degli elettori che si spostano da una parte all’altra». Per cui esiste certamente un elettorato centrista, ma non un partito centrista, perché la politica è la scelta tra due tesi, e chi si mette in mezzo è inutile. E non sarà la fusione a freddo fra Calenda e Renzi a fare eccezione.
 

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