Crisi di governo, Mario Draghi ha gettato la maschera: è lui il leader ombra del centrosinistra
Più che da premier dell'unità nazionale teso a ricucirei fili della larga alleanza di governo, e a creare le condizioni per andare avanti senza la scheggia impazzita del grillismo contiano, ieri mattina Draghi si è presentato al Senato nelle vesti di leader ombra delle sinistre, sia per la diversa durezza dei toni usati, sia per la sostanza di un intervento tutto sbilanciato sui temi cari al campo largo, entrando a gamba tesa da una parte sola allo scopo palpabile di provocare un fallo di reazione.
Nel lungo e teso discorso, in cui al tradizionale stile algido si sono alternati passaggi perfino commossi, non potevano ovviamente mancare aspri rimproveri alle forze di maggioranza - quindi anche i Cinque Stelle - che hanno incrinato la linea della fermezza contro Mosca con i distinguo sull'invio di armi all'Ucraina, e la forte rivendicazione dell'ancoraggio atlantico ed europeo. Ma su tutti gli altri fronti Draghi ha puntato il dito accusatore solo contro le battaglie del centrodestra, come se la fiducia al suo governo non l'avesse negata Conte, ma Berlusconi e Salvini, e gli irresponsabili fossero dunque loro. Un rovesciamento della realtà che ha lasciato di stucco anche i più convinti draghiani centristi, che si aspettavano dal premier parole di tutt' altro tenore. Dal catasto ai balneari fino ai tassisti,
Draghi ha lanciato tre secchi ultimatum in nome di un valore liberale come la concorrenza, riaprendo così, scientemente, anche ferite che erano state faticosamente rimarginate durante l'iter parlamentare. Nel merito poteva anche avere ragione, ma non era certo quelli né il momento né il luogo per rinfacciare al centrodestra le sue contraddizioni, compiendo invece un chiaro fallo di omissione non citando, almeno per una questione di par condicio, le incursioni destabilizzanti del Pd in Parlamento su ius soli e cannabis libera, che hanno tenuto per settimane in fibrillazione la maggioranza. Mai silenzio fu più chiarificatore della piega che Draghi ha voluto imprimere agli eventi, e le avvisaglie si erano avvertite la sera precedente, nel clima di gelo, quasi di sfida, con cui era stata accolta la delegazione del centrodestra a Palazzo Chigi per presentare le sue richieste, speculari a quelle grilline. Nessuna risposta e il perentorio invito a rivolgersi a Mattarella per avere lumi sulla durata della legislatura.
Non solo: la Lega che chiedeva la flat tax e la rottamazione delle cartelle esattoriali si è vista invece gettare in faccia il credito di 1.100 miliardi di magazzino fiscale che l'Agenzia delle Entrate ha nei confronti di cittadini e imprese. Mentre sul salario minimo ha aperto a quello indicato dall'Europa per andare incontro alle richieste di Conte. A quel punto il patatrac era servito: Draghi ha presentato un programma molto corposo, con un orizzonte di dieci mesi, mentre il deterioramento della situazione politica avrebbe suggerito di proporre misure scarne per affrontare le emergenze e la legge di bilancio come atto finale della legislatura.
Nella replica ha corretto il tiro, sparando a zero contro Conte, accusato senza mezzi termini di incompetenza per come ha scritto il superbonus che ha messo in crisi migliaia di imprese sulla cessione dei crediti e rafforzando il concetto che il reddito di cittadinanza deve essere modificato: insomma, scoraggiando i Cinque Stelle dal votargli, semmai ci avessero ripensato, a votargli la fiducia.
Chi ha vinto e chi ha perso questa partita lo sapremo a ottobre: il centrodestra, chiedendo un Draghi bis senza i grillini, ha posto un vincolo di serietà, perché era impossibile ricostruire un patto di fiducia con chi ha sabotato l'unità nazionale. La decisione di non votare la risoluzione Casini, quindi, alla fine è stato un atto di coerenza e anche di coraggio, perché se prima il responsabile della crisi era solo l'avventuriero Conte, ieri lo strappo lo hanno consumato Berlusconi e Salvini. È troppo presto per disegnare scenari, ma non può certo essere esclusa l'ipotesi che Draghi diventi il punto di riferimento di un variegato fronte progressista che lo indicherà come premier anche nella prossima legislatura. Riportando il centrosinistra in partita.