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Crisi di governo, Draghi alimenta il dubbio che stia guardando soprattutto a sinistra

Riccardo Mazzoni
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È lecito chiedersi perché, alla vigilia del D-day al Senato in cui si decide il futuro del governo, Draghi abbia deciso di complicarsi la vita da solo ricevendo di primo mattino Letta a Palazzo Chigi. E non parliamo dell'eminenza grigia berlusconiana, che nelle crisi politiche ha sempre svolto un ruolo terzo di mediatore, ma del nipote segretario del Pd.

Riavvolgendo il nastro della crisi, dallo strappo di Conte sul decreto Aiuti alle dimissioni del premier in consiglio dei ministri, il clima politico era sensibilmente cambiato, virando verso una ricomposizione complessa ma possibile. Il centrodestra di governo, che avrebbe tutto l'interesse di andare al voto anticipato, durante i cinque giorni concessi da Mattarella per l'inizio dei tempi supplementari ha progressivamente abbassato i toni, anche perché pressato dal partito del pil che teme salti nel buio nel mezzo alla tempesta perfetta delle emergenze nazionali. I Cinque Stelle sono ormai in preda a un autentico big-bang, e il paletto piantato improvvidamente dal premier per proseguire l'azione di governo - ossia una maggioranza con dentro ancora il Movimento - stava cadendo da solo grazie a un gruppo nutrito di governisti pronti a votare la fiducia in dissenso da Conte. Per cui, non sapendo più chi detiene la vera ragione sociale dell'ex partito di maggioranza relativa, l'unità nazionale poteva in qualche modo dirsi salvaguardata.

Pressato dalle cancellerie occidentali e dagli appelli dal basso di 1600 sindaci, categorie economiche, professionali e sanitarie, Draghi - tornato dalla missione in Algeria - un ripensamento sicuramente lo sta facendo rispetto alle dimissioni (non irrevocabili) consegnate al Quirinale. In una fase in cui gli equilibri politici sono necessariamente in fibrillazione, ricevere Letta è stato quindi un errore da matita blu, un incidente di percorso forse voluto, ma più probabilmente sottovalutato nel segno della candida arroganza che è stata un tratto distintivo del premier in alcuni passaggi cruciali del suo ministero.

Dopo le dimissioni, Draghi aveva scavato un solco che sembrava abissale fra sé e le fibrillazioni politiche: chiuso in una sorta di turris eburnea, con Giavazzi come solo interlocutore, aveva ridotto al minimo perfino i contatti con i sei ministri che lo hanno accompagnato ad Algeri, in attesa di far conoscere il suo pensiero definitivo nell'aula del Senato. Una linea di condotta irreprensibile, la perfetta cifra del premier di un governo «di alto profilo che non deve identificarsi con alcuna formula politica», come lo battezzò Mattarella. Perché allora ricevere Letta - e farlo sapere - mentre il centrodestra che aveva chiesto una verifica non aveva ricevuto risposte? Non si è trattato di uno sgarbo «diplomatico», ma di un evidente fallo politico che ha suscitato prima lo «sconcerto» di Berlusconi e Salvini, e poi la richiesta dal vertice di Villa Grande di mettere in agenda una serie di punti, dalla revisione del reddito di cittadinanza al controllo dell'immigrazione irregolare, totalmente indigesti sia al Pd che ai grillini «moderati».

Infine il premier, in serata, ha chiamato anche il centrodestra a palazzo Chigi. Draghi è un fuoriclasse ed è superfluo dirlo, ma la politica è materia scivolosa, che richiede accortezza e soprattutto buoni consiglieri, ed evidentemente il fallito approdo al Quirinale non gli ha insegnato nulla. Allora il suo profilo passò nel breve volgere di una conferenza stampa da quello della prima e più autorevole riserva della Repubblica all'essere un premier che si autocandidava per il Quirinale, perdendo l'aura di solennità, saggezza ed equilibrio che lo aveva circondato da Bankitalia alla Bce fino a Palazzo Chigi. Ora, a distanza di pochi mesi, un altro inciampo che ha rialimentato i dubbi sul leggero strabismo del premier. A sinistra. 

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