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La sinistra italiana cerca sempre idoli stranieri. Di solito perdenti di successo

Riccardo Mazzoni
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Melenchon, il perdente di successo della politica francese, è il nuovo idolo della sinistra radicale italiana, ripiegata da sempre su un profilo che abbina massimalismo e provincialismo alla continua ricerca di una qualche identità che desse corpo e sostanza al suo endemico antagonismo. Un esempio per tutti: Articolo 1 ha perfino aperto in onore del leader della gauche un circolo a Parigi. In effetti il tribuno francese ha tutte le caratteristiche per fungere da modello di quell'area un tempo presidiata dal bertinottismo: uscito dal partito socialista nel 2008 per fondare il «Parti de gauche», alle ultime presidenziali si è presentato con un movimento dai tratti populisti e appoggiato dai comunisti («La Francia ribelle») ed è rimasto fuori dal ballottaggio fallendo poi, alle legislative, anche la scalata alla coabitazione con Macron. Melenchon è solo l'ultimo dei papi stranieri sui quali anche la sinistra cosiddetta riformista, dopo il crollo del Muro di Berlino, ha cercato affannosamente di mettere il cappello per far dimenticare il proprio ingombrante passato. Basta pensare alla ricerca affannosa delle radici della Quercia, che affondarono di volta in volta nei profili di Dossetti, di don Milani, dei Fratelli Rosselli, e perfino di Craxi e di Oriana Fallaci. Ma sono state le figure internazionali ad esercitare un maggiore appeal sulla nomenklatura ex comunista, ansiosa di fare proprie - e rivenderle alla base delusa per le sconfitte subite da Berlusconi - le vittorie altrui.

 

 

Un'attitudine vana su cui ha scritto parole definitive Arturo Parisi nella sua veste corrosiva di grillo parlante: «La sinistra italiana si esalta quando vince in Ohio ma poi perde in Abruzzo...». La casistica è molto fitta: dal trionfo di Lula in Brasile, osannato da D'Alema e Bertinotti come il riscatto delle favelas e di tutto il proletariato mondiale, a Zapatero preso a modello per il suo laicismo vincente su Aznar, alla Linke di Lafontaine, perfino al controverso laburista britannico Corbyn, poi frettolosamente ripudiato per le sue scivolate antisemite. Mail caso più emblematico resta quello di Tsipras, che dopo il commissariamento della Troika vinse a sorpresa con la neonata Syriza le elezioni in Grecia divenendo così il simbolo della resistenza contro «il liberismo barbaro della Merkel». Un pantheon per forza di cose in continuo aggiornamento, ondeggiante e contraddittorio perché soggetto a modifiche a seconda del mutamento delle stagioni politiche: ai tempi del governo Renzi, un gruppo di parlamentari bersaniani - l'autoproclamata Brigata Kalimera - volò ad Atene per festeggiare Tsipras e Varoufakis e innalzare le bandiere contro il rigore europeo che affamava i popoli, ma che avevano personalmente sostenuto votando le misure draconiane del governo Monti, alla cui nascita aveva contribuito proprio Bersani e non Renzi, arrivato solo dopo alla guida del partito.

 

 

L'ultimo papa straniero del Pd è stato Joe Biden, il cui successo contro Trump fu descritto da Zingaretti come l'alba di una nuova, esaltante era progressista, mentre Renzi ha tentato invano di seguire le orme di Macron per rilanciare la Terza Via blairiana. La perenne babele dovuta allo storico frazionismo della sinistra italiana si riverbera insomma anche sulla scelta dei riferimenti stranieri: Melenchon, Biden, Macron, in attesa di una nuova stella a cui attaccare il proprio scalcinato carro

 

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