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Serve una riforma per stabilizzare il rapporto tra Governo e Parlamento

Riccardo Mazzoni
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Il bilanciamento dei rapporti tra governo e Parlamento è una vecchia questione irrisolta, dibattuta a lungo anche nell'Assemblea Costituente, che partorì il compromesso di un sistema di «governo debole» in modo che nessuno potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere del tutto escluso dalla gestione del Paese: la «conventio ad excludendum», in questo senso, fu l'espediente per compensare il mancato assetto bipolare - e il conseguente beneficio dell'alternanza di governo - con un consociativismo di fatto poi culminato nel compromesso storico, e di cui il sistema elettorale proporzionale costituiva l'indispensabile supporto. Il risultato, nella prima Repubblica, fu quello di produrre frequenti crisi di governo in un quadro di sostanziale stabilità politica, in linea con la scelta del bicameralismo perfetto e col timore diffuso che un eccesso di potere all'esecutivo potesse rialimentare tentazioni autoritarie.

 

 

Passando dalla storia alla cronaca, la questione dell'equilibrio tra esecutivo e legislativo è stata riproposta in questi giorni prima da Conte, con la pretesa che Draghi venisse a riferire alle Camere ad ogni passaggio della guerra ucraina; e poi dai capigruppo del Senato, i quali hanno chiesto una maggior tutela del Parlamento perché, tra decreti, questioni di fiducia sui maxiemendamenti e decisioni inappellabili della Ragioneria dello Stato, ha margini sempre più ristretti per esercitare la sua funzione. La richiesta di Conte, che peraltro nei due anni di Palazzo Chigi aveva fatto un uso smodato di Dpcm, era a tutti gli effetti strumentale, prefigurando proprio il trionfo dell'assemblearismo, mentre il governo - a maggior ragione nelle emergenze - non si può certo ridurre a un mero comitato esecutivo in balia degli umori parlamentari, ma deve fungere da vero e proprio comitato direttivo della maggioranza. Il premier, che in un sistema bipolare è solitamente il leader della coalizione vincente, deve a sua volta essere il garante dell'indirizzo politico di fronte al Parlamento, ma anche allo stesso corpo elettorale, che però da dieci anni a questa parte ha sempre dovuto assistere alla formazione di maggioranze spurie, figlie di compromessi tra partiti spesso avversi. Una situazione perfettamente compatibile con i canoni della democrazia parlamentare, ma comunque eccentrica rispetto alla Costituzione materiale invalsa nella seconda Repubblica, che ci aveva abituati a conoscere la sera stessa delle elezioni il presidente del consiglio, riducendo a pura formalità le consultazioni al Quirinale.

 

 

C'è stata insomma una combinazione di fattori storici e politici che ha prodotto governi e Parlamenti entrambi deboli, per cui la governabilità del Paese è stata compromessa dall'eccessivo rallentamento della produzione legislativa. Da qui l'eccesso della decretazione d'urgenza, una consuetudine deprecata a intermittenza dall'opposizione di turno. Una deriva che il taglio dei parlamentari, senza un'adeguata revisione dei regolamenti, rischia di aggravare ulteriormente. È evidente che fino a quando non sarà modificata la Costituzione, il rapporto tra governo e Parlamento resterà confinato in questo equilibrio instabile, ma alcuni punti fermi dovrebbero essere chiari a tutti, a partire dalla necessità di rafforzare i poteri del premier, che ora è solo un primus inter pares, e dal principio generale che vede un esplicito favor regolamentare per l'attività del governo in Parlamento, al quale resta sempre e comunque la facoltà di revocargli la fiducia. Finora, tutti i tentativi di irrobustire la forma di governo parlamentare si sono arenati nelle secche delle Bicamerali fallite, e il modello presidenziale proposto da Fratelli d'Italia potrebbe costituire la via d'uscita alla questione che i padri costituenti lasciarono irrisolta. Dovrà farsene carico il centrodestra, se vincerà le elezioni, ma a sinistra le resistenze saranno fortissime.

 

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