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Referendum giustizia, ha prevalso il distacco di un popolo stanco e sfiduciato

Riccardo Mazzoni
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C'è una regola basilare della democrazia secondo cui il fallimento elettorale di un partito non è mai da attribuire agli elettori, ma solo al gruppo dirigente di quella forza politica che non è riuscito a veicolare un messaggio appropriato e a mettersi in sintonia con le istanze sociali. Ma se questo ragionamento vale per le elezioni, politiche o amministrative che siano, per il referendum il discorso è invece radicalmente diverso. Andando alle radici della Repubblica, è uno strumento che i padri costituenti vollero maneggiare con cura, ponendogli dei limiti precisi non solo per ribadire il primato della democrazia parlamentare, ma anche perché temevano un ritorno surrettizio delle vecchie derive autoritarie sotto forma di plebisciti popolari.

 

Questo non toglie che si tratti di uno straordinario strumento di partecipazione che nel ventennio ’70-’90 riuscì a imporre svolte anche storiche per il progresso sociale - vedi divorzio - e per la stessa riforma del sistema elettorale con l’abolizione delle preferenze multiple. Certo, i partiti erano ancora in piedi e in grado quindi di indirizzare almeno in parte l’elettorato di riferimento sulle grandi questioni nazionali, ma quella stagione, in tutta evidenza, è tramontata da tempo, se è vero che dal 1995 in poi nessun referendum ha più raggiunto il quorum. Unica eccezione: i quesiti su nucleare, legittimo impedimento e acqua pubblica votati nel 2011, con la soglia superata di un soffio grazie alla spinta emotiva suscitata dalla tragedia della centrale di Fukushima.

 

Ma oggi sarebbe troppo semplicistico - e assolutorio nei confronti degli italiani - attribuire il fallimento dei cinque referendum sulla giustizia ai promotori - Lega e radicali - o alla scarsa incisività del Comitato per il sì presieduto da Nordio, o al mancato traino dei quesiti più popolari come la responsabilità civile dei magistrati, l’eutanasia e la cannabis, tutti cassati dalla Consulta; o ancora alla decisione del governo di limitare l’election day alla sola domenica; o al boicottaggio dei media abbinato al no del Pd che è suonato come un invito a disertare le urne. O ancora alla disinformazione veicolata dai messaggi obliqui di alcuni magistrati i quali - senza che nessuno si sia sentito in dovere di intervenire - hanno avvertito che se fosse passato il referendum sulla custodia cautelare i narcotrafficanti arrestati avrebbero dovuto essere messi in libertà «con tante scuse del popolo italiano», falsificando così in modo spudorato il contenuto dell’iniziativa referendaria. 

 

Intendiamoci: sono tutte giustificazioni plausibili, che si aggiungono peraltro alle drammatiche ferite ancora aperte sulla pelle del Paese per due anni di Covid e di lockdown, oltre che per le conseguenze della sciagurata guerra in Ucraina, e prima ancora per l’impoverimento generale di un Paese lacerato da trent’anni di mancata crescita e dalle crisi globali del nuovo secolo, che ora vede di nuovo aleggiare il fantasma dello spread. Ma ieri c’era in ballo qualcosa di più della sorte di cinque referendum, anche se la giustizia è a tutti gli effetti una patologia ormai cronica del sistema: con il conflitto geopolitico appena riaperto tra libertà e dittature, era infatti necessario un moto di partecipazione, che desse un segnale di radicamento popolare della nostra democrazia.

 

Hanno prevalso invece l’atarassia e il distacco di un popolo ormai totalmente ripiegato su sé stesso e sulle proprie sofferenze, che dopo essersi consegnato all’illusoria e rischiosa utopia grillina - ed essendone uscito brutalmente scottato - sembra considerare la democrazia e i suoi strumenti più uno scomodo dovere che un diritto da custodire gelosamente. Ma gli Aventino nella storia non hanno mai portato a nulla di buono: quante volte si è detto, soprattutto in questi mesi di guerra, che la libertà va difesa ogni giorno perché non è una conquista garantita per sempre. Detestare questa politica confusa e le sue precarie élites è legittimo, ma disertare allo stesso tempo le occasioni per condizionarla diventa un autodafè democratico che fa molto riflettere sul futuro di questo Paese in cui correnti no vax, pulsioni antioccidentali e suggestioni putiniste sono pericolosamente diffuse, e sollate a un astensionismo endemico diventano un mix potenzialmente distruttivo. 

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