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Fuori tempo massimo, il voto telematico rimane un miraggio

Fabrizio Dell'Aria
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Le elezioni ci ricordano non solo i diritti, ma le responsabilità della cittadinanza in una democrazia (Robert Kennedy)». L’odierno referendum ci invita a esprimerci su cinque quesiti in tema di giustizia. A ciascuno di noi, senza esclusione alcuna, è riconosciuto il diritto di esercitare il proprio voto. Tale riconoscimento, indiscutibilmente giusto, nonché costituzionalmente garantito, ci consente di esprimere la nostra volontà, ovvero la volontà popolare.

L’affluenza al voto, tuttavia, negli ultimi anni, è costantemente diminuita: infatti, osservando quanto accaduto in occasione delle passate elezioni, i primi commenti del dopo voto, oltre a evidenziare la scarsa affluenza dei cittadini, sempre più disaffezionati alla res publica, si concretizzavano, ancor prima di passare alla verifica delle maggioranze sempre più difficili con i nostri mutanti sistemi elettorali, nella frase pronunciata dalla stessa classe politica «dobbiamo fare qualcosa... la politica deve fare qualcosa». Eppure qualcosa dobbiamo fare: non possiamo, infatti, immaginare che il voto rimanga espressione di pochi e - aggiungo pensando alle prossime elezioni, politiche - per eleggere pochi. A tutto ciò si aggiunga che, oltre alle argomentazioni appena espresse, sussiste un’ulteriore tematica sulla quale è opportuno e corretto riflettere. Oggigiorno, sempre più, siamo chiamati a esperire le nostre attività quotidiane attraverso i sistemi informatici: il certificato al Comune, la dichiarazione dei redditi, i pagamenti delle tasse, l’invio di documentazione per le gare pubbliche e private, tutta una serie di attività che, pur non accorgendocene, ci porta ad avere un rapporto con la pubblica amministrazione delegato a sistemi informatici. Basti pensare che, ormai, SPID, PEC, Password sono lessico comune. Invece, per quanto riguarda il voto? Nulla di tutto ciò: sembra, infatti, che ci sia un veto sulla possibilità di esprimere la nostra volontà attraverso un voto elettronico. Ma così non dovrebbe essere: infatti, l’E-democracy consentirebbe ai cittadini di partecipare alle attività delle pubbliche amministrazioni locali ed ai loro processi decisionali attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie della comunicazione, rafforzando la democrazia e la fiducia verso lo Stato e migliorando la qualità delle politiche pubbliche, così come l’E-voting consentirebbe il voto elettronico, espresso attraverso dispositivi muniti di internet collocati presso il seggio elettorale, dando nuova linfa al sistema elettorale attraverso una nuova ed auspicata partecipazione di massa dei cittadini, che potrebbero tornare ad esprimersi più agevolmente sulla cosa pubblica. In America, nonostante il sistema di voto elettronico sia stato tempestato da polemiche, allarmi per i brogli e accuse per i sistemi adottati, l’intento, ovvero di aumentare la partecipazione al voto, attestata, ad oggi, intorno al 55%, non sembra più un lontano miraggio. In Italia, sebbene con 15 mesi di ritardo, è stato firmato, nel luglio 2021, un decreto tra il Ministero degli Interni e il Ministero dell’Innovazione tecnologica, per avviare una sperimentazione di voto elettronico, in occasione di referendum ed elezioni politiche, per i «fuori sede» (circa 3 milioni di cittadini, i quali, per motivi di studio o lavoro non possono votare nel luogo di residenza) e per i cittadini italiani residenti all’estero (circa 4,5 milioni), sistema che poggia sull’adozione di un sistema sperimentale di «web application». Oggi si svolgono le votazioni per i referendum: pensate che questi cittadini possano votare via web?. No, oggi, no! Un problema di cybersicurezza dicono dai ministeri. Forse alle politiche del 2023! Più che altro la paura di un fallimento. Ma Elon Musk avrebbe risposto così: «Se le cose non stanno fallendo, non stai innovando abbastanza». Insomma, abbiate coraggio.
 

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