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Unione europea, disastro von der Leyen fra vaccini, guerra e tasse

Pietro De Leo
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L’ideologia può fare da effetto morfina quando la politica non esiste. E’ il principio che viene in mente guardando a questi quattro annidi Commissione von der Lyen. Oramai il quinquennio di gestione volge al termine, il prossimo anno si tornerà al voto per il rinnovo del Parlamento europeo, e, conseguentemente, verrà anche costruito un nuovo esecutivo. E dunque si va costituendo un bilancio di una impostazione politica, impostata dall’ex ministro della difesa del governo Merkel, molto incentrata su un gretismo rovinoso (da Greta Thunberg) a fronte dei tanti, troppi deficit politici via via certificati lungo il cammino. L’approccio dogmatico al verbo green ha trovato terreno fertile presso il progressismo socialista (troncone della maggioranza) e in parte della costola popolare, soprattutto di scuola nordeuropea, area in cui negli ultimi anni il vento politicamente corretto ha trovato il suo intenso spirare. E dunque l’avventura di Ursula von der Leyen si riassume in questa tenacia granitica nel portare avanti politiche spericolate e spesso autolesioniste in tema ambientale. Con una volontà impermeabile ai rivolgimenti sociali che dovrebbero indurre ad una maggiore cautela sull’imporre accelerazioni nette. Invece, nulla. Avanti a testa bassa sullo stop ai motori endotermici dal 2035, iniziativa che avrebbe devastato il settore dell’automotive e consegnato il turbo economico alla Cina, detentrice della filiera dell’elettrico.

 

 

 

Percorso, per fortuna, al momento bloccato da un’alleanza tra Italia, Germania, Repubblica Ceca, Polonia. Con la stessa ostinazione, viene portata innanzi la direttiva sulle case green, a spregio del tessuto sociale di un Paese fondatore come l’Italia, dove il patrimonio immobiliare è fondamento del risparmio privato e l’efficientamento energetico comporterebbe un salasso finanziario per imprese e famiglie. Un “whatever it takes” della transizione incurante di un mondo cambiato: il ridisegno degli assetti globali con la guerra in Ucraina suggerirebbe maggiori cautele nel rischio di consegnare ulteriori redini alla Cina nelle catene d’approvvigionamento. Lo sconquasso nelle forniture energetiche (sempre derivante dall’invasione russa), con relativa impennata inflazionistica dovrebbe indurre ad aggiungere altre tappe nel cammino di transizione. Invece nulla, Ursula va, verso la sua meta, o meglio miraggio epocale. Lasciando qui e là macerie di disastri politici. Sull’immigrazione siamo ancora all’epoca Juncker, ossia il nulla. La gestione negli acquisti di vaccini ha dei coni d’ombra e richieste di trasparenza nelle comunicazioni con la multinazionale Pfizer per ora inevase. Sullo scenario ucraino, il ruolo dell’Esecutivo europeo è relegato ad una poco onorevole posizione comprimaria, deltutto assente in qualsiasi costruzione di trattativa, sostanziale (lo sblocco dei carichi di grano, su cui l’intesa si deve ad Erdogan) o ipotetica (il cessate il fuoco). Così come l’accordo per il tetto al prezzo del gas è stato un parto dopo lunga gestazione, periodo che caro costò ai pagatori di bollette domestiche e aziendali. A far da cornice a tutto, dissidi continui con Charles Michel, presidente del Consiglio Europeo, con cui Ursula condivide il fardello del governo comunitario. Un triste consuntivo, che s’accinge a consegnare al puzzle del mondo un’Europa sempre più debole, con poco fiato per le partite che si preparano. In un campo da gioco che non è più quello, piano e radioso, degli anni ’90.

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