Iran, la battaglia contro il velo non può essere islamofobia
Dietro ogni orrore perpetrato da un nemico dell'Occidente, in Italia spunta sempre una schiera di giustificazionisti pronti a manipolare la realtà per dar ragione al tiranno di turno. Il putinismo è la malattia senile dei comunisti irriducibili, e in questi mesi di guerra ha già dato molte acrobatiche prove di sé, arrivando perfino a certificare la regolarità dei referendum farsa imposti da Mosca nelle quattro regioni ucraine occupate. Ma questi pervicaci sostenitori dello zar non fanno quasi più notizia, essendo ormai risaputo e consunto l'illogico sillogismo che attribuisce alla resistenza ucraina la colpa del prolungamento del conflitto e delle stragi.
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Per questo il loro disappunto perché «nessuno parla di pace» suona falso come il tentativo doloso di rovesciare le responsabilità. Il pacifismo ideologico nato nel secondo dopoguerra, del resto, non ha mai cambiato verso. Oriana Fallaci lo detestava fieramente: «Non hanno mai speso una parola - diceva - per i diritti dei poveri cinesi che sono in galera o nei campi di concentramento, e non hanno mai detto nulla per difendere le donne col burqa. Alcuni mi accusano di avere una fissazione sul chador e sul burqa, ed è vero, è diventata una fissazione: ma com' è possibile che tutti questi progressisti, queste false femministe non abbiano mai profferito parola sui regimi teocratici che governano ogni istante della vita di quella povera gente?». Parole rimaste sempre di estrema attualità negli anni della rinascita islamica, e lo sono ancora di più oggi, nei giorni in cui l'uccisione della povera Mahsa Amini, la ragazza simbolo della rivolta contro il velo, ha suscitato un'ondata di proteste repressa nel sangue e in tanti hanno ricordato il coraggio di Oriana che osò strapparsi il burqa davanti a Khomeini. Ma non è scattato alcun convinto moto di solidarietà nei confronti delle donne iraniane epigone della generazione che fotocopiava clandestinamente i libri della Fallaci: anzi, i nemici dell'Occidente che ci teniamo covati come serpi in seno non hanno perso l'occasione per difendere anche in questa tragica occasione il regime degli ayatollah.
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Negando che il velo sia una repressione della libertà di mostrarsi e accusando «la macchina islamofoba» di mascherarsi dietro la lotta per i diritti delle donne, fino a definire «La rabbia e l'orgoglio» della scrittrice fiorentina come un vero e proprio «manifesto dell'islamofobia». È una corrente di pensiero, molto radicata nella sinistra radical-chic, che ritiene ammissibile la sottomissione femminile in nome del valore culturale e spirituale dell'Islam, teorizzando l'ossimoro della libertà delle donne di rinunciare alla libertà, fingendo di ignorare che il velo è un codice sociale che non ha nulla di spirituale. E in base a questo falso e ignobile assunto, l'esistenza di una polizia morale diventa lecita insieme alle sue documentate atrocità. Così la morte di Mahsa viene derubricata a sfortunata fatalità su cui le massime autorità iraniane «hanno immediatamente ordinato di indagare», alimentando la solita narrazione complottista secondo cui all'origine degli incidenti ci sarebbe la manipolazione del Satana americano, all'opera per provocare un cambio di regime a Teheran. Posizioni sinistramente speculari a quelle di chi si ostina ad accusare l'Occidente di non comprendere le ragioni di Putin nonostante che la rovinosa guerra in Ucraina si stia rivelando un folle azzardo che mette a rischio il mondo con la minaccia nucleare. I putiniani d'Italia vorrebbero ascoltare parole di pace, ma non si curano di ascoltare chi le pronuncia in Russia e finisce in galera o, peggio, a morire al fronte. Sono solo una retroguardia dell'armata rossa della vergogna.