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Ingerenze sulle armi, se negli Usa sparano inutile discutere in Italia

Paola Tommasi
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C'è una strage negli Stati Uniti e si infervora il dibattito sulle armi in Italia. Succede sempre così. E non sulla possibilità di comprarle e usarle liberamente per gli italiani ma per gli americani che, tra l’altro, lo considerano un proprio diritto tanto da averlo messo nella Costituzione. Mentre da noi riemerge ciclicamente l’antico vizio di guardare con i nostri occhi e giudicare sulla base dei nostri parametri vicende di Nazioni lontane, magari per strumentalizzarle a fini di politica interna, in questo caso per attaccare Matteo Salvini e la Lega sulla legittima difesa. Come se non avessimo già Covid, guerra e crisi economica di cui preoccuparci, solo per dirne alcune. Tanto più che di stragi negli Usa ne succedono tante, tutte da condannare senza se e senza ma, soprattutto se colpiscono piccoli innocenti come avvenuto nell’ultima sparatoria in una scuola in Texas, di solito per mano di giovani, o meno giovani, squilibrati o disadattati.

Da cui la posizione di una parte del partito repubblicano americano, incluso l’ex Presidente Donald Trump, per cui il tema cesserebbe di porsi se si risolvesse il problema dell’assistenza alle persone con disturbi mentali e mettendo in sicurezza le scuole, per esempio con dei poliziotti all’ingresso di ogni istituto. Proposta quest’ultima che, mutatis mutandis, ricalca tanti anni dopo quella del «poliziotto di quartiere» che caratterizzò la prima campagna elettorale di Silvio Berlusconi nella discesa in campo del 1994.

 

 

 

Ma perché negli Stati Uniti quando succede una strage si vanno a cercare i motivi che hanno spinto l’assassino a compiere quel gesto sconsiderato mentre in Italia si discute di armi? Perché siamo due popoli diversi e viviamo in Paesi dove da sempre il concetto di sicurezza e di autodifesa sono agli antipodi. Il nostro ordinamento delega allo Stato le competenze in materia mentre negli Usa di fatto ci si fa giustizia da sé, quali che siano, giustificate o meno e spesso non lo sono, le ragioni per cui si spara. Ogni famiglia ha il proprio «responsabile della pistola» e in assenza dei componenti più anziani (e maschi) della famiglia subentrano i più giovani o le più giovani. Per loro una responsabilità che è motivo di orgoglio: non intendono rinunciarvi. Nei fine settimana vanno ai poligoni per fare pratica, come fosse una scampagnata al parco, per dire come la dimestichezza e la familiarità con le armi sia innata nel popolo Usa, per cultura, storia, radici e tradizione. L’esatto contrario di quanto accade da noi. Per cui non potremo mai comprendere, né tanto meno giudicare, il rapporto di un americano con la sua baionetta. Così come loro non capiscono il nostro stupore davanti alle loro leggi.

Gli stessi democratici di Washington che al Congresso discutono su come rendere più severi i requisiti per il possesso di armi non pensano neanche lontanamente di vietarne del tutto la detenzione, come vorremmo invece noi per loro a un oceano di distanza, fisica e culturale. Il tema dell’influenza delle lobby delle armi, che in effetti esiste, viene dopo e si innesta su qualcosa che è già più che radicato. Non è solo una questione di affari. Lo dimostra la posizione del Presidente Joe Biden sull’Ucraina: come pensa che il popolo attaccato debba difendersi? Con le armi e gliele manda. Allora perché in casa propria dovrebbe avere un atteggiamento differente? Anzi, forse è quando assume posizioni per il disarmo che cade in contraddizione. Pensiamola come vogliamo sul porto d’armi nel nostro Paese ma smettiamola di filosofeggiare sulle scelte di politica interna di altri Stati, loro potrebbero venire a sindacare sulle nostre. E non è corretto né in un senso né nell’altro.

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