Salvatore Montefusco, polemica per la condanna a 30 anni: le motivazioni fanno impallidire
La Corte d’assise di Modena ha condannato Salvatore Montefusco a 30 anni di carcere per l’uccisione di Gabriela Trandafir e della figlia Renata, avvenuta il 13 giugno 2022 a Castelfranco Emilia. La sentenza ha considerato le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, respingendo la richiesta della Procura di ergastolo. Secondo le motivazioni, i magistrati hanno riconosciuto una «comprensibilità umana dei motivi» che hanno spinto Montefusco a commettere il reato, escludendo le aggravanti di premeditazione, motivi futili e crudeltà. La Corte ha sottolineato che l’imputato, incensurato e settantenne, «non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate». Il movente, inoltre, non è stato ritenuto di natura puramente economica, ma legato al «profondo disagio, umiliazione ed enorme frustrazione» causa dall’alta conflittualità familiare e dalla prospettiva di dover lasciare la casa coniugale. A influenzare la decisione è stata anche la confessione spontanea e il corretto comportamento processuale dell’imputato, in un contesto familiare che aveva esasperato la sua condizione psicologica.
“Era innocente”. Processo da rifare sul mostro di Firenze? C'è la richiesta
La sentenza ha però innescato grandi polemiche a livello politico, e in maniera bipartisan, a partire dal ministro per la Famiglia e le Pari opportunità, Eugenia Roccella: «Leggeremo ovviamente il testo integrale della sentenza, ma se ciò che emerge dagli stralci pubblicati oggi venisse confermato, il pronunciamento della Corte d’Assise di Modena nei confronti dell’uomo responsabile dell’uccisione della moglie e della di lei figlia conterrebbe elementi assai discutibili e certamente preoccupanti che, ove consolidati, rischierebbero non solo di produrre un arretramento nell’annosa lotta per fermare i femminicidi e la violenza maschile contro le donne, ma anche di aprire un vulnus nelle fondamenta che reggono il nostro ordinamento». Il problema, prosegue Roccella, «non è la comminazione della pena, non è la sua entità, non sono le valutazioni processuali proprie dell’esercizio della giurisdizione. Ciò che colpisce è il ragionamento a monte che sembrerebbe aver orientato la Corte, per la quale, a quanto si legge, ’la situazione che si era creata nell’ambiente familiare’ avrebbe ’indotto’ l’imputato ’a compiere il tragico gesto’, con la conseguenza di una ’comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato’».
Contributi per pratiche mai fatte. Le ombre sulla gestione dei patronati Cgil a New York
Secondo la deputata della Lega Laura Ravetto, responsabile del dipartimento Pari opportunità del Carroccio «sentenze come questa non fanno altro che vanificare leggi come il Codice Rosso e il lavoro di prevenzione, mandando messaggi culturali devastanti. Presenterò un’interrogazione al ministro della Giustizia perché la vicenda non si può chiudere con un triste titolo di giornale». Ma la sconcerto è bipartisan, espresso anche dalle parlamentari del Movimento 5 Stelle nella commissione bicamerale di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere Stefania Ascari, Anna Bilotti, Alessandra Maiorino e Daniela Morfino: «30 anni o l’ergastolo, considerata l’età del condannato, cambia poco nella pratica. Quel che sconcerta sono le motivazioni addotte e trapelate a mezzo stampa sulla sentenza di Modena. Non c’è nulla di comprensibile in un femminicidio che, in questo caso, è addirittura duplice».