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8 per mille alla Chiesa, chiesto il rinvio a giudizio per 9 persone. C'è anche il fratello di Becciu

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Il pm Giovanni Caria ha chiesto stamane il rinvio a giudizio per Antonino Becciu, fratello del cardinale Angelo, il vescovo di Ozieri, Corrado Melis, e altre sette persone, indagate dalla procura di Sassari per riciclaggio e peculato. Secondo l’accusa, fondi dell’8 per mille alla Chiesa, destinati alla diocesi di Ozieri - circa 2 milioni di euro in 10 anni - sono finiti dal 2013 nei conti correnti della cooperativa sociale Spes di cui è responsabile il fratello del cardinale. Viene contestato, dunque, il presunto uso indebito dei fondi Cei dell’8 per mille e la presunta distrazione di 100 mila euro che la diocesi di Ozieri ha ricevuto dalla Segreteria di Stato Vaticana. Nell’udienza preliminare di stamane davanti al gup del tribunale di Sassari Sergio De Luca, il pm ha anche preannunciato la richiesta di sequestro preventivo per equivalente, finalizzato alla confisca, dei beni degli imputati per un ammontare, appunto, di circa 2 milioni di euro. 

 

 

«Nessuna delle persone offese - Stato italiano, Cei e Segreteria di Stato - ha mai segnalato o lamentato illeciti», sottolinea il difensore degli indagati, l’avvocato Ivano Iai, «né si è costituita parte civile nel processo, sebbene ritualmente citata». Nell’inchiesta della Procura di Sassari, aperta oltre tre anni fa e collegata a uno dei filoni di quella più nota conclusa in Vaticano nei confronti del cardinale Angelo Becciu, sono coinvolti anche il direttore della Caritas di Ozieri, don Mario Curzu, Giovanna Pani (compagna di Antonino Becciu), la figlia di quest’ultima Maria Luisa Zambrano, Francesco Ledda, Franco Demontis, Luca Saba e Roberto Arcadu. «Nessuna distrazione di denaro è mai avvenuta per scopi privati», è la linea difensiva, che l’avvocato Iai sosterrà nella prossima udienza davanti al gup, fissata per il 3 febbraio prossimo. «La Spes è una cooperativa onlus della quale la Caritas e la Diocesi di Ozieri si servono per perseguire gli scopi di solidarietà e carità in favore e supporto di singoli, famiglie e, in generale, persone della diocesi», sottolinea Iai, «secondo criteri autonomi non sindacabili dall’Autorità italiana ma, eventualmente, dai soggetti latori dei finanziamenti che, nella specie, non solo non hanno mai rilevato anomalie di gestione, né contestato alcunché, ma hanno addirittura confermato, anno per anno, i contributi finora erogati». 

 

 

La difesa, rappresentata dagli avvocati Iai e Antonello Patanè, «è fiduciosa di poter dimostrare l’uso corretto delle risorse ricevute, grazie alla documentazione esistente e alle modalità trasparenti di gestione, anche nei casi di aiuti alle povertà e lotta al disagio socio-familiare per i quali, com’è consuetudine della Chiesa, alle persone sono assicurati riserbo e rispetto della dignità». Iai e Patanè, inoltre, contestano «l’irrituale ingerenza dell’Autorità italiana quanto alla gestione dei fondi dell’8 per mille, il cui controllo, di esclusiva pertinenza della Cei, non compete a soggetti diversi da quelli preposti al governo degli affari della Chiesa cattolica, nel rispetto dell’articolo 7 della Costituzione e del Concordato». Di conseguenza, la difesa sosterrà la tesi dell’erronea qualificazione del reato di peculato e dell’erronea identificazione dei vescovi quali pubblici ufficiali tenuti a rispondere allo Stato italiano e non alla Chiesa Cattolica. I difensori dei nove imputati lamentano, inoltre, «una sistematica violazione dei diritti di alcuni tra gli imputati nel procedimento», dovuta alla connessione fra la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla procura di Sassari e il processo vaticano a carico del cardinale Angelo Becciu, concluso con una condanna in primo grado davanti al Tribunale vaticano e ora in fase di appello. Come esempio, Iai e Patanè citano il fatto che «il verbale integrale della deposizione del vescovo di Ozieri, escusso senza alcuna garanzia come testimone davanti al Tribunale vaticano, è rifluito nel processo sassarese, dove lo stesso vescovo ricopre la qualità di imputato».

 

 

Secondo la difesa, dunque, le testimonianze acquisite davanti al Tribunale vaticano non potrebbero essere utilizzate nell’ordinamento italiano, in quanto assunte in violazione delle leggi processuali italiane. «L’ordinamento processuale vaticano - e ancor prima quello sostanziale - sono vecchi di oltre 100 anni e non garantiscono, tra l’altro», sostengono i legali, «i diritti fondamentali degli imputati e delle persone sottoposte e indagini». «Gli atti acquisiti presso l’Autorità vaticana», concludono Iai e Patanè, «ivi inclusa la sentenza di condanna del cardinale Angelo Becciu, sono pertanto inutilizzabili alla stregua del nostro ordinamento, che non potrebbe mai riconoscerli giacchè contrari ai principi costituzionali e della Convenzione europea dei diritti umani fondamentali firmata a Roma nel 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia ma mai neppure firmata, invece, dallo Stato della Città del Vaticano».

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