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Sequestro Moro, quando gli incursori della Marina erano vicini al covo

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Alessandra Zavatta 
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«Ci fu una lontana notte in cui speravamo di aver individuato il luogo dove egli poteva essere astretto. Ci fu persino qualcuno che si offrì volontario per, se necessario, fare scudo col proprio corpo alla vita dell’eminente statista». «Egli» è il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 in via Mario Fani, a Roma. Il «volontario» pronto a rischiare la morte per salvarlo è un medico del Comsubin, il reparto incursori della Marina che si occupava pure di antiterrorismo. A rivelare tutto fu il 10 giugno 1991 l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. L’occasione era il cinquantenario degli assalti compiuti dagli incursori subacquei contro la marina britannica nel 1941 a Malta e in Egitto, durante la Seconda guerra mondiale. 

Che il Picconatore fosse in vena di rivelazioni lo avevano intuito in pochi. Tra questi c'è Giovanni Torrisi, capo di Stato maggiore della Marina all’epoca del sequestro Moro. «Sapevo che Cossiga avrebbe detto qualcosa», racconterà più tardi l’ammiraglio, che fece parte del comitato di crisi che gestì le indagini sul rapimento dello statista democristiano e l’uccisione degli uomini della scorta. Quel «qualcosa», che il Capo dello Stato aveva dimenticato di dire nell’audizione in Commissione Stragi il 23 maggio 1980, era l’Operazione Smeraldo. Cioè l'attivazione dei reparti speciali del Comsubin per liberare Moro a seguito di un’informazione giunta al Ministero dell’Interno, di cui proprio Cossiga era titolare, riguardo il luogo in cui veniva tenuto prigioniero il leader della Dc che voleva portare i comunisti al governo in un nuovo patto con i cattolici. Smeraldo è una delle operazioni condotte in quei drammatici 55 giorni che ancora oggi presenta tanti, troppi misteri. 

 

Nei documenti depositati presso la Camera di deputati e ora disponibili, è riportato che cinque giorni dopo il rapimento «alle ore 8.15 del 21 marzo l’ammiraglio comandante di Comsubin da Roma informava il comandante dell’Unità di intervento della situazione in atto, precisando che l’area di possibile ubicazione dell’ostaggio era in zona Forte Boccea o Aurelia nelle vicinanze del Raccordo anulare». Gli incursori non dovevano«muovere per il rischieramento, ma rimanere in stato d’allerta». La «soffiata» indicava in un casolare nelle campagne tra la periferia occidentale di Roma e il mare il covo dove i brigatisti avevano nascosto il presidente della Dc. L’ordine di tenere pronti i reparti speciali era partita alle sette del mattino sempre dal dicastero dell’Interno. Mezz’ora dopo il capo del Comsubin fece sapere da Varignano, la sede operativa a due passi da La Spezia, che il team era in attesa del trasferimento. Alle 7.39 era in partenza, sempre dalla base ligure, anche l’Unità di intervento. Il viaggio top secret sarebbe dovuto avvenire in elicottero. Fino alle 13 gli incursori restarono in «stand by». Poi l’operazione venne annullata. Il blitz mancato contrasta in parte con le dichiarazioni di Cossiga che alla Festa del Consubin disse molto ma, come sempre, non «tutto».

Rovistando tra i documenti della prima Commissione Moro il 21 marzo si svolse, non a Forte Boccea ma sul litorale romano, tra Cerenova, Sasso e Furbara, un’operazione interforze. Nel volume numero 37 degli atti dell’inchiesta dalle 7 alle 13 paracadutisti dell’ottavo battaglione dei carabinieri, agenti della questura di Roma con l’ausilio di elicotteri eseguirono una serie di controlli tra le frazioni di Sasso e Furbara «al fine di riscontrare l’attendibilità di notizie da fonte confidenziale». Alle 17.30 il colonnello Coppola fece il punto sul rastrellamento eseguito sul litorale «verso il chilometro 47 dell’Aurelia e zone adiacenti». I controlli furono tutti con esito negativo, come risulta dal volume numero 27 degli atti della commissione. L’intervento del Comsubin, il reparto più attrezzato di cui disponeva l’Italia per la liberazione di ostaggi, venne taciuta inspiegabilmente da Cossiga per tredici anni. Gli incursori erano stati messi in allerta fin dall’inizio sequestro e, come ricorderà in audizione l’ammiraglio in congedo Oreste Tombolini (all’epoca giovanissimo ufficiale) «venivamo portati in diverse zone, un bosco, un casolare ma non sapevamo dove fossimo davvero e se fosse un’esercitazione oppure una vera operazione». «Arrivava l’ordine, prendevamo le armi e partivamo dal Varignano - spiegherà agli inquirenti - Sarà capitato almeno sette-otto volte di salire a bordo, anche in piena notte». Quando il presidente della seconda commissione Moro, Giuseppe Fioroni, gli chiese di chiarire se quella del 21 marzo gli sembrasse un reale intervento antiterrorismo, lui sorvolò sui dettagli. Eppure Cossiga ringraziò il Comsubin con un’enigmatica frase: «Non fummo fortunati ma la nostra sfortuna nulla toglie a quella che è la vostra generosità e la vostra preparazione».

Le indagini testimoniano che, dopo l’assassinio, il 9 maggio 1978, nei risvolti dei pantaloni di Aldo Moro, sugli pneumatici e sulla scocca della Renault 4 rossa che ne trasportò il cadavere, vennero ritrovate tracce di sabbia compatibili con quella del litorale tra Ladispoli, Palo Laziale e Fregene. Il commando brigatista con l’ostaggio doveva essere passato da quelle parti, qualcuno lo capì (a Furbara all’epoca c’era una base del Sismi e a Cerveteri si tenevano esercitazioni di Gladio), volle aiutare gli investigatori, che però arrivarono tardi. Nei diari degli Anni di Piombo Giulio Andreotti il 21 marzo '78 scriverà: «Falso allarme a Furbara. Cossiga mi dice che ci sono andati vicino».
 

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