Dossieraggio, quel vizietto del sistema Laudati. E ora la Gdf indaga su se stessa
Deve aver avuto proprio la fissazione dei dossier, o comunque l’aspirazione di scoprire tutto quello che c’era da sapere sui notabili, a costo di sacrificare i suoi stessi colleghi. Perché il pm Antonio Laudati, al centro dell’indagine sugli spioni dell’Antimafia, non compare dal nulla nell’inchiesta che ora punta ai mandanti. Basta tornare indietro, al lontano 2009, per scoprire quello che, alla luce degli atti dell’inchiesta sui dossieraggi, può essere definito, a tutti gli effetti, il sistema Laudati. All’epoca il magistrato, dopo essere già stato alla Procura nazionale antimafia e al ministero della Giustizia sotto il governo di Romano Prodi, capita nel momento giusto, al posto giusto. Nominato procuratore, il suo posto giusto diventa la procura di Bari e il momento giusto è all’indomani della deflagrazione del peggiore scandalo della storia politica di Silvio Berlusconi, le dichiarazioni della escort Patrizia D’Addario sull’allora presidente del Consiglio. Il fascicolo che riguarda l'imprenditore barese della sanità Giampaolo Tarantini, accusato di reclutare ragazze per le cene eleganti con il premier, è affidato al pm Giuseppe Scelsi. Laudati si insedia e, in gran segreto, crea un suo pool di fedelissimi, una cosiddetta aliquota della Guardia di Finanza che lavora come un alveare di api operose e risponde solo alla regina: il procuratore. Il compito è spiare l’operato di Scelsi e la sua linea d’azione culminata con la concessione, da parte del gip Antonio Fanizzi, dei domiciliari a Tarantini. Lui, Laudati, aveva chiesto la detenzione in carcere, per la pericolosità dell’indagato e il rischio di fuga.
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Gli 007 del capo controllano tutto quello che fa il pm, chi incontra, con chi parla. Viene investigato il rapporto di Scelsi con l’ex magistrato Alberto Maritati, parlamentare del Pd. E da lì parte una pesca a strascico, che passa dall’amicizia tra Maritati e Maria Pia Vigilante, avvocato di Patrizia D’Addario, e arriva al sospetto di un passaggio di notizie a Massimo D’Alema, proprio sull’inchiesta Tarantini-escort. Il pool di Laudati si focalizza anche sulla famiglia di Scelsi e raccoglie le intercettazioni indirette del fratello Michele, responsabile del Coordinamento regionale delle attività trasfusionali della Puglia, registrate durante l’indagine su Alberto Tedesco, all’epoca senatore ex Pd ed ex assessore regionale alla Sanità. Il pool spia pure il pm Desirè Di Geronimo, che lavora su un filone dell’inchiesta appalti e sanità. Emette agli atti le intercettazioni, sempre indirette, tra la Di Geronimo e la dottoressa Paola D’Aprile, amica dell’ex direttrice della Asl barese, Lea Cosentino, indagata nel fascicolo della Di Geronimo. Nel 2011 i finanzieri, su ordine di Laudati, preparano una corposa relazione sugli spiati. Il capo della Procura la inoltra al procuratore generale di Bari, Antonio Pizzi, che si indigna della situazione, visto che lui è il solo a poter disporre indagini sulle indagini. Pizzi, a quel punto, invia la relazione degli spioni al Csm e Laudati, che nel mentre si attira le antipatie dei magistrati vittime dei dossieraggi, finisce davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. Come nella caduta degli dei, a difenderlo è l'ex pm di Mani Pulite, Piercamillo Davigo, condannato pochi giorni fa a un anno e 3 mesi per rivelazione del segreto d'ufficio nel caso della Loggia Ungheria. Lo definisce «un magistrato fuori dal comune». I teste non ricordano. Viene messo tutto a tacere.
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Il Csm, che oggi sembra ritardare l’audizione sul filone Perugia, lo assolve perché Laudati scarica tutte le responsabilità sul suo pool. «I finanzieri sono andati un po' oltre», è stata la giustificazione. La stessa che adesso starebbe sostenendo con chi gli sta vicino, in questi giorni di un'indagine che, secondo molti, è appena cominciata. E dove, per nemesi, la Guardia di Finanza indaga sulla Guardia di Finanza.
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