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Emilia-Romagna, il grande cuore della solidarietà: una mobilitazione virale

Pietro De Leo
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C’è il grande cuore della solidarietà che pulsa nella reazione collettiva all’alluvione in Emilia Romagna. È un collage composto da tanti volti; quello dei volontari della Protezione Civile, poi di una partecipazione molto più «spontanea», spesso di giovanissimi, che affondano gli stivali nel fango e spalano, tirano via melma e detriti. A riprova di quanto molti appartenenti ad una generazione catalizzata dagli smartphone possano strapparsi via dal vortice dello schermo e ritrovare la concretezza della terra e dell’aiuto fisico. Una catena diventata virale, nelle foto che girano sui social e rimbalzano sui giornali. E c’è poi la mobilitazione associativa. Con il mondo del terzo settore, impegnato nella sua molteplice galassia. Poi ci sono le categorie. Confindustria, Cgil, Cisl e Uil lanciano un «Fondo di intervento» in cui verranno destinati contributi volontari dai lavoratori ed una dazione, di pari ammontare, anche dalle imprese. Si è mossa poi la Federazione Italiana Cuochi per assicurare container e mettere in campo la maestria degli chef. L’Ordine dei Farmacisti ha messo in moto la sua macchina organizzativa per compensare le carenze di servizio laddove compromesse dalla calamità.

 

 

E ancora, compulsando le notizie, vediamo quanto siano fondamentali le associazioni del comparto agricolo, sia per avere una prima fotografia di massima dei danni, sia (anche in questo caso) per dare aiuto. Per fare qualche esempio, l’Associazione Regionale Allevatori e il Cai, Consorzi Agrari d’Italia, si sono adoperati per la consegna di carburante e mangimi alle aziende che erano rimaste senza. Al di là della retorica che spesso erutta in queste occasioni, c’è una cronaca sostanziale di aiuto vero e indispensabile. Poi c’è un tema di contesto e di prospettiva che dimostra quanto, spesso, in questi anni sono stati compiuti errori. Viviamo l’epoca della frammentazione, di un’apnea digitale che troppo spesso ci ha portato a considerare l’apporto dell’uomo comodamente sostituibile. Nelle emergenze (da quella attuale alle altre calamità, sino al Covid), abbiamo scoperto che non è così. La centralità della persona, come componente di una dimensione collettiva, è ancora fondamentale. Così come lo sono le realtà associative, i corpi intermedi la cui capacità di «fare rete» si è dimostrata decisiva in queste giornate drammatiche.

 

 

Spesso, la turbopolitica degli ultimi decenni, quella fondata sulla preponderanza dei leader, sul predominio di suggestioni immediate, e sparse a mezzo social, ha portato a ritenere le istanze (e la portata di queste realtà) come tranquillamente bypassabili. È stato un errore, l’ennesimo, in questa fase storica piena di allucinazioni, in cui ci siamo illusi di poter fare a meno di aggregazioni ispirate da obiettivi o valori comuni. Di poter trasferire sul web gran parte delle relazioni sociali. Ora, quanto accaduto ci richiama alla «terra» e alle mani. E risulta quanto mai attuale quel concetto di «big society» teorizzato dall’ex premier inglese David Cameron, conservatore, ormai qualche lustro fa. Forze vive che devono esser messe in grado di collaborare con lo Stato, un meccanismo in cui alle prime sia consentito fare ciò che il secondo non sempre riesce (o non è in grado) di fare. In pratica, l’applicazione della sussidiarietà orizzontale. Se il mantra di questi giorni è che la natura ci sta dando un segnale, non possiamo trascurare neanche quel che ci sta mandando la storia. Lo sta mandando alla politica e soprattutto alla sinistra, spesso ideologicamente ostile alle associazioni di imprese e professionisti, che invece in questa occasione (come in molte altre) hanno risposto efficacemente alla chiamata per il bene comune.

 

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