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Sequestro di Aldo Moro, spuntano i documenti inediti degli 007 inglesi

Alessandra Zavatta
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L’aiuto agli inglesi per liberare Aldo Moro l’Italia l’ha chiesto subito. Il 16 marzo 1978, qualche ora dopo il rapimento del presidente della Democrazia Cristiana e dall’assassinio dei cinque uomini della scorta un telegramma urgente e segretissimo, inviato a Downing Street, riporta che «Squillante, capo di gabinetto di Cossiga (ministro dell’Interno) ha telefonato a McMillan (Primo segretario) per cercare la garanzia che potrebbe essere imminente l’aiuto richiesto in relazione al rapimento del signor Moro, provvedendo all’assistenza tecnica basata sulla nostra esperienza in Ulster». Il documento top secret è custodito nell’Archivio di Stato del Regno Unito. Fa parte del fascicolo intitolato «Terrorism in Italy» (terrorismo in Italia), che contiene materiale riservato ora liberato dai vincoli di riservatezza. Quarantacinque anni dopo di segreti c’è ne sono ancora molti. Nonostante un milione di pagine di carte processuali, relazioni delle commissioni d’inchiesta, informative di polizia, carabinieri e 007 di ogni ordine e grado.

L’aiuto richiesto da Arnaldo Squillante nel documento classificato «secret» fa riferimento a quanto detto dall’ammiraglio Marcello Celio, vicecapo di Stato maggiore della Marina e componente del Comitato politico-tecnico-operativo per la ricerca e la liberazione di Moro. «Gli italiani - riporta il cablogramma protocollato il 17 marzo - sarebbero grati se potessimo rendere subito disponibile un istruttore del Sas con particolare esperienza ad affrontare una situazione di assedio (qualora il nascondiglio di Moro e dei rapitori venga localizzato)». L’urgenza è tale che da Roma è pronto a partire un aereo «per raccogliere l’istruttore e il materiale». Il Sas, Special Air Service, è il corpo d’élite dell’esercito britannico creato nel 1941 in Nord Africa per effettuare raid contro le linee dell’Asse, specializzato nell’antiterrorismo e nel salvataggio di ostaggi. A stretto giro gli inglesi rispondono che possono inviare «due membri del Sas con capacità consultiva e venti granate stordenti». Con l’obiettivo di assaltare e cogliere di sorpresa le Brigate Rosse, che nel frattempo hanno rivendicato il rapimento. A patto, naturalmente di trovare il covo dove è tenuto prigioniero il presidente della Dc catturato mentre si recava in parlamento perché quel giorno il quarto governo presieduto da Giulio Andreotti doveva ottenere la fiducia per essere insediato.

 

 

 

Alle 9.02, mentre sta percorrendo via Mario Fani, la Fiat 130 blu con a bordo Aldo Moro viene bloccata da altre due auto. Quattro brigatisti travestiti da steward dell’Alitalia sparano da dietro le fioriere del bar Olivetti, all’angolo con via Stresa. Il caposcorta, maresciallo Oreste Leonardi, e l’autista, l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, vengono falciati dalle raffiche. Vengono subito ammazzati pure due poliziotti sull’Alfa Romeo che segue: Giulio Rivera e Salvatore Iozzino. Il terzo agente, Francesco Zizzi, riesce ad accennare una difesa rispondendo ai colpi. Ferito, morirà poco dopo al Policlinico Gemelli. Secondo le sentenze definitive, le perizie e il racconto dei brigatisti a compiere l’assalto sarebbero stati Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli. Mario Moretti, il capo della colonna romana, a bordo di una Fiat 128 bianca, aveva il compito di farsi tamponare dall’auto presidenziale così da fermarla. Mentre Barbara Balzerani, Alvaro Loiacono e Alessio Casimirri dovevano «isolare» la strada e bloccare macchine e passanti. L’avvio alla strage lo dà, come accertato dagli inquirenti, Rita Algranati agitando un mazzo di fiori all’arrivo della macchina di Moro. Numerosi testimoni raccontano nell’immediato che a sparare non sono state quattro persone, ma almeno otto-nove e che vestiti da steward c’erano altri due uomini a cavalcioni di una moto Honda. Il procuratore generale presso la Corte d’Appello Luigi Ciampoli porterà in seguito a dodici i componenti del commando, di cui fecero parte anche elementi non appartenenti alle «bierre» e killer professionisti, e a 25 il numero complessivo delle persone coinvolte a vario titolo nell’Operazione Fritz, come venne ribattezzato l’assalto. Dei 93 colpi sparati, 49 provengono dalla stessa arma e sono quelli determinanti per l’azione. Così iniziarono i 55 giorni che travolsero l’Italia. Tra verità negate, depistaggi, documenti spariti e furti misteriosi, come quello nella redazione fotografica dell’agenzia Ansa dove vennero trafugati i rullini con le immagini di un elicottero che sorvolava via Fani pochi minuti dopo la strage ma non apparteneva alle forze dell’ordine.

Qualche ora dopo ecco l’appello «top secret» agli inglesi di mandare gli istruttori del Sas con la verità da un lato e, dall’altro, la «versione concordata con il Ministero della Difesa» da rifilare ai giornalisti. Scrive M.R. Morland del Maritime, Aviation and Environment: «Dovremmo tenere la seguente linea: alla richiesta del governo italiano quello britannico ha reso disponibili due consulenti militari per assistere le forze italiane nell’addestramento». Non si doveva sapere che a Roma sarebbero sbarcati gli 007 del Sas. Ma «Il Tempo» lo scopre e scopre pure che «dalla Germania Federale sono arrivati 32 agenti del Bundeskriminalant per collaborare con i nostri servizi di sicurezza nella caccia ai terroristi che tengono prigioniero Moro». Inglesi e tedeschi «saranno in diretto contatto con il Sisde ma non con polizia e carabinieri». L’articolo deve aver dato qualche fastidio se all’epoca venne tradotto e inviato al governo di Sua Maestà, allegato al fascicolo dei documenti secretati. Dopo la tragica conclusione del sequestro, gli inglesi stilano un bilancio. In una lettera, spedita il 31 agosto dal dicastero dell’Interno a quello degli Esteri, scrivono che «la recente visita del team Sas ha rilevato il comando e controllo come l’area più debole del piano di emergenza italiano». «Sono ad un livello rudimentale su queste questioni», insistono i britannici. Che cercano di organizzare un incontro nella sede del ventiduesimo Reggimento a Hereford, il quartier generale del Sas, a cui partecipi se possibile il ministro dell’Interno. Perché, riportano i cablogrammi che seguono, «la più grande debolezza degli italiani è l’assenza di coordinamento tra le diverse autorità dell’antiterrorismo» e «un miglioramento della loro sicurezza è anche nel nostro interesse».

Tra le tante bocciature c’è pure qualche nota positiva: «Le autorità di sicurezza italiana appaiono aver fatto qualche progresso con il recente trasferimento delle responsabilità di queste operazioni ai carabinieri sotto il comando del generale Dalla Chiesa». È il 13 ottobre. Due settimane prima è stato scoperto nel covo Br in via Montenevoso, a Milano, il Memoriale Moro, la trascrizione degli interrogatori dell’ex presidente del consiglio nella «prigione del popolo». Ci sono anche alcune bobine registrate del «processo» allo statista democristiano. Il 9 ottobre 1990, ristrutturando l’appartamento dove un tempo si nascondevano le Brigate Rosse, viene rinvenuta una seconda versione del memoriale, con cinquantatré pagine in più, nascosta dietro un pannello in cartongesso accanto a mitra, pistole, munizioni e sessanta milioni di lire in contanti. Ma Dalla Chiesa ormai non c’è più. La mafia l’ha ammazzato il 3 settembre 1982, a Palermo. Sei mesi prima era stato ascoltato dalla Commissione Moro. In audizione aveva spiegato che il memoriale rinvenuto era una copia, non l’originale, e il dubbio che mancasse qualcosa lo aveva avuto.

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