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Urbano Cairo, l'editore del Corriere e La7 si rassegni al governo Meloni

Luigi Bisignani
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Caro direttore, se prima era la Dc, ora è Giorgia Meloni il bersaglio di certa tv. In primis di La7, degna erede della ben più famosa telekabul degli anni ’80. Deve essersene accorto perfino Urbano Cairo che, reinterpretando in modo creativo il ruolo di editore, tutto controlla anche nei suoi giornali dalle didascalie alle foto, per non parlare, ça vasans dire, della raccolta pubblicitaria, settore in cui effettivamente è degno allievo dei maestri Berlusconi e Dell’Utri, dai quali ha imparato il mestiere dimenticando la riconoscenza. Chissà se l’altro giorno il grande piccolo Urbano è sceso a Roma per mettere una pezza alla martellante campagna antigovernativa (dalle accise all‘immigrazione) dei suoi giornalisti militanti, ben spalleggiati dai gattopardi del Fatto Quotidiano. È stato visto, per l’appunto, che si aggirava un po’ sperduto nei corridoi di Palazzo Madama alla ricerca dell’ufficio del presidente del Senato La Russa, contro il quale la «corazzata Cairo» ha scatenato un’offensiva in grande stile per impedirgli di fare politica quando non presiede l’Aula.

La visita sembra abbia dato i suoi frutti e, infatti, solo poche ore dopo «Gnazio» appariva sorridente su una «paginata» del Corriere della Sera e poi in una lunga intervista, ospite della trasmissione di Myrta Merlino, brillante pifferaia magica della tv di Cairo. L’aria che tira a La7 si evidenzia, ancor di più, nel fazioso, si fa per dire, trio che conduce le danze: Gruber-Formigli-Floris. Ognuno va dritto per la propria strada che porta tutti, h24, all’apologia incondizionata del Conte Masaniello e dei piddini di turno e alla denigrazione costante della Meloni e di tutta la sua allegra compagnia di Fratelli e Sorelle d’Italia.

Forse, grazie ai buoni consigli del direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, stagionato e onesto comunista, si cercherà di aggiustare la rotta, anche perché, persino per Napoleone-Cairo, cinque anni di centrodestra sono troppi. Dunque, delle due l’una: o la «corazzata Cairo» si dà una calmata e si detalkerizza o è da vedere se è opportuno inserire qualche nuovo innesto meno rabbioso. Con le nuove leve al comando che decideranno i budget pubblicitari, finora ricevuti con grande generosità dai vari Descalzi, c’è sicuramente da aggiustare qualcosa nella strategia commerciale, e quindi ideologica, della tv del gruppo Cairo, anche perché molte produzioni si lamentano per i ritardi nei pagamenti. E se La7 tartassa la Meloni, mamma Rai non perde il vizio di mettere in cattiva luce, anche retroattivamente, la Dc, dapprima con la serie tv di Bellocchio «Esterno Notte» e adesso col pretesto di ricordare grandi figure del passato, come il compianto Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Lo fa con alcuni gravi falsi storici che riguardano, oltre a Cossiga e Moro, soprattutto Giulio Andreotti, con cui il generale aveva un rapporto diretto e cordiale, come dimostrato dalla corrispondenza intercorsa tra i due facilmente consultabile nell’archivio custodito alla Fondazione Sturzo, e da un episodio che mi permetterò più avanti di raccontare.

Ma prima rimettiamo in ordine corretto gli avvenimenti per come si sono realmente svolti rispetto alla serie andata in onda su Rai1. Il Nucleo speciale antiterrorismo fu sciolto nel luglio 1975, quando Andreotti era ministro del Bilancio (governo Moro IV) e non aveva perciò alcuna competenza diretta o indiretta in tale ambito e, per di più, è noto che non condivise affatto tale decisione. E fu proprio Andreotti non solo ad indicare Dalla Chiesa a sovrintendere al sistema carcerario che era diventato un colabrodo, ma addirittura, subito dopo l’omicidio Moro, si fece parte attiva nel ripristinare il Nucleo speciale antiterrorismo di Dalla Chiesa. Se ciò non bastasse, quando il generale fu indicato come Prefetto di Palermo, Andreotti, come ricordava lui stesso in un articolo pubblicato su Il Tempo, gli suggerì di sommare al nuovo incarico il ripristino del Nucleo, potenziandolo anche della lotta alla camorra oltre a quella alla mafia. Quanto al generale, ricordo perfettamente più visite a Piazza San Lorenzo in Lucina. Arrivava quasi sempre con brevissimo preavviso, ma una volta notai che, trattenendosi più del solito, uscì con un tono insolitamente dimesso, al contrario della signora Enea che, invece, lo salutava come sempre con bonaria ironia. Chiesi al presidente cosa fosse successo e raccolsi la confidenza che oggi, davanti a tante cattiverie, mi sento di rivelare. «Quest’uomo così valoroso mi ha voluto parlare da padre a padre del rapporto con suo figlio Nando del quale non riesce a capire alcune scelte che lo angosciano. Questo gli provoca molto dolore, tanto da commuoversi davanti a me ed io ho cercato di rincuorarlo».

Negli anni all’Ansa ho seguito da cronista il generale Dalla Chiesa, stringendo persino rapporti di amicizia con alcuni dei suoi più diretti collaboratori, a cominciare da Giovanni Marrocco. Ebbene, le maggiori angherie le ha ricevute proprio dall’ambiente militare, dall’esercito e dagli stessi Carabinieri. Sempre come Ansa, avevo un patto tacito con lui. Quando mi veniva annunciata un’operazione importante, io dovevo mettere nel flash «I Carabinieri del Generale Dalla Chiesa hanno sgominato la cellula...».

Immediata la reazione dell’Arma. Il generale Mario De Sena chiamava e mi rimproverava dicendo: «I carabinieri sono carabinieri e non sono i carabinieri di Dalla Chiesa, correggi...». A quel punto chiesi ai collaboratori del supergenerale se il suo fosse un peccato di vanità. Loro mi risposero che lo era, ma solo in parte, nell’ambito di una strategia precisa per alimentarne il mito, al fine di indurre i brigatisti a pentirsi, ma solo con lui. E così avvenne, prima ancora dell’entrata in vigore della legge sui pentiti. Grazie generale, con buona pace di suo figlio Nando, lei sa bene che rapporto aveva con il presidente Andreotti che per anni ha continuato a ricevere e consolare la mamma della sua seconda sfortunata moglie. Aspettiamo con ansia l’ennesima fake history. Stavolta magari su La7. Alè. 

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