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Cosa ha fatto Papa Ratzinger: addio al Pontefice che cambiò la storia

Luigi Bisignani
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Caro direttore, in extremis, l’ultimo giorno, dell’anno Benedetto XVI è "giunto alla casa del Signore" dai suoi vecchi amici. Così aveva immaginato il suo congedo terreno: "Perché non mi preparo alla fine ma a un incontro poiché la morte apre alla vita, a quella eterna, che non è un infinito doppione del tempo presente, ma qualcosa di completamente nuovo". Un gigante minuto. È racchiusa tutta in questo ossimoro l’impressione che ebbi di Ratzinger la prima volta che lo incontrai.

Accadde nel secolo scorso a Palazzo Giustiniani, nello studio del presidente Andreotti: a un certo punto fece ingresso Patrizia Chilelli, la sua fedele assistente, per annunciare la visita del cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto per la Dottrina della Fede, il temuto Sant' Uffizio. Andreotti, al solito, scattò come una molla dirigendosi verso la porta alla sinistra del salotto e io appresso a lui, per uscire dalla stanza. Elaborando in un attimo il nome, la nazionalità e il ruolo del porporato tedesco e forse suggestionato dalla stampa che lo appellava come il «rottweiler bavarese», mi aspettavo di trovare dietro la porta una montagna d'uomo e, invece, mi si parò davanti - in clergyman senza alcun segno cardinalizio se non un anello - una figura esile e delicata con un sorriso disarmante. Teneva in mano un basco nero e un pacchettino di pasticceria. Dopo qualche secondo di minuetto «prego, entri», «no, esco io», dacché dovevo andar via, fui invitato a restare insieme a questi due giganti. L'imbarazzo del futuro Papa nel porgere ad Andreotti il pacchetto di cioccolatini di Moriondo & Gariglio era pura impacciataggine.

Andreotti li scartò subito, esclamando sorpreso: «Alla menta! I miei preferiti... Come fa a saperlo?». Il cardinale, con il suo inconfondibile accento teutonico, rispose con un filo di voce: «L'anno scorso, durante il ricevimento all'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede per i Patti Lateranensi, ho notato che ne aveva mangiati tre» e, arrossendo leggermente, confessò di aver memorizzato l'episodio e di aver chiesto il nome della pasticceria e così, prima di venire, passeggiando per le vie di Roma, come amava fare, era passato a comprarli. Ne rimasi colpito. La conversazione virò poi sulla rivista del Presidente «30 Giorni» che si stava occupando di Sant'Agostino. Mi restarono impresse le osservazioni di Ratzinger sulla figura del grande Santo di Ippona che della diffusione della dottrina aveva fatto il suo «Vangelo» e la palese ammirazione di Andreotti per quell'uomo che amava passeggiare per la Città Eterna. Entrambi concordavano che la fede cristiana è la religione dei semplici che si realizza nell'obbedienza a Nostro Signore, quella stessa obbedienza che non si affida al proprio potere o alla propria grandezza, ma si fonda sull'amore di Gesù Cristo per gli uomini e la verità.

Negli anni successivi, Ratzinger ebbe parole severe per come era stato istruito il processo di Palermo ad Andreotti, esprimendo ammirazione per la forza d'animo dimostrata nei dieci anni di calvario durante i quali «subì oltraggi pubblici mostruosi e fu profondamente ferito nel suo onore e nella sua dignità». Ma non solo Andreotti. Ebbero rapporti stretti con Ratzinger anche Napolitano, Ciampi, il «collega filosofo» Marcello Pera e soprattutto Francesco Cossiga. Con quest' ultimo parlavano in tedesco, soffermandosi sui grandi pensatori della «Scuola di Francoforte», Max Horkheimer e Theodor Adorno, mai nascondendo la loro comune passione per Platone e Sant'Agostino, più che per Aristotele. Lo scambio di piccoli doni era una consuetudine. Cossiga, ad esempio, portava in Vaticano dei Krapfen alla marmellata per la prima colazione, di cui Benedetto XVI era ghiotto nonostante ne spilluccasse come un uccellino. Ben diversi dai breakfast di Karol Wojtyla che, da buon polacco, si faceva preparare il «bigos», uno stufato di carne, crauti e cipolle con l'aggiunta di prugne secche e spezie, servito personalmente dal Santo Padre ai suoi ospiti del mattino, dopo la messa. Il Picconatore, oltre che su temi di filosofia, si intratteneva con Ratzinger sul Concilio Vaticano, che considerava un momento cruciale nella storia della Chiesa, potenzialmente foriero di sviluppi positivi, ma con grande e riconosciuta lungimiranza, così come poi è avvenuto, di «pericolosi fraintendimenti» e di avventurose «fughe in avanti».

Tra loro, con gran divertimento di entrambi, andava sempre in scena un siparietto con quelle che Ratzinger, con la sua erre aspra, bollava come raccomandazioni italiane. Una, andata in porto grazie a Benedetto XVI, fu la beatificazione di Rosmini, presbitero e filosofo italiano fondatore dell'Istituto della Carità, un'altra, per Giansenio, teologo e vescovo cattolico olandese, si perse nei tempi. Ma c'è un altro fuoriclasse delle Istituzioni italiane che può vantare di essere stato il più a lungo in auto con un Papa: Gianni Letta. Il 28 aprile 2009 era prevista una visita di Benedetto XVI a L'Aquila, dove sarebbe dovuto arrivare in elicottero; tuttavia, il maltempo non permise il decollo e il Santo Padre accolse l'invito dell'allora Sottosegretario alla Presidenza ed abruzzese «doc» di andare in macchina. Cosa si siano detti questi due uomini di cultura e di fede non è dato sapere.

«Una commozione che mi porterò per sempre nel cuore», aveva confidato Letta agli amici, ricordando che nel tragitto aveva svolto solo la funzione nobilissima di Gentiluomo di Sua Santità. Mai una parola in più su quel viaggio. Così come nel caso Andreotti, si sa che anche con Berlusconi Ratzinger fu sempre garantista e mai usò parole fuori luogo verso la classe politica italiana né verso altri, diversamente dal suo successore Bergoglio che, alla prima occasione di incontro in Vaticano con i parlamentari per un'udienza speciale, ha apostrofato gli ospiti quasi come gaglioffi in libera uscita. La giustizia è forse uno dei tratti più divisivi tra il Papa «filosofo» e il Papa «peronista». In nome della Misericordia e del giusto processo, una differenza netta sarà ricordata per la gestione degli scandali vaticani. Mai con Ratzinger avremmo assistito a un processo contro un porporato. Il convincimento di Ratzinger era che «in Vaticano fosse sempre garantita l'indipendenza della giustizia e che il monarca non dicesse: "adesso me ne occupo io". In uno stato di diritto la giustizia deve fare il suo corso. Il monarca, poi, può concedere la grazia». E infatti Ratzinger, davanti alle accuse del Nunzio Carlo Maria Viganò, si rivolse al principale accusato per chiedere spiegazioni, senza mai mettere in dubbio il vincolo di fiducia e fedeltà; da qui iniziò un lungo processo interno che portò all'allontanamento di Viganò, salvando comunque la forma e mantenendolo Nunzio apostolico a Washington. La valutazione corretta dell'inaffidabilità di monsignor Viganò fu dimostrata a Francesco, che arrivò invece a chiederne le dimissioni.

Tutt'altro stile quello del Papa argentino che, prendendo immediatamente per buone e inaudita altera parte le accuse contro il cardinale Becciu, lo ha preventivamente condannato per poi sottoporlo, con una legge ad hoc, a un processo che mette ancora disagio a tutta la Curia. Da alcune chat emergerebbe, infatti, che il Papa fu vittima di un raggiro per eliminare un cardinale a lui fedele. La mano di Bergoglio non è stata certo più leggera con il suo predecessore Emerito, quando gli «consigliò» di non comunicare con l'esterno. Confinandolo quasi agli «arresti domiciliari» nel Monastero Mater Ecclesiae e arrivando anche a rimuovere dalle funzioni di prefetto della Casa Pontificia il suo segretario particolare, padre Georg Gaenswein, al quale non è stato neppure concesso l'onore di annunciare la morte del suo Papa affidata a uno scarno comunicato del direttore della Sala Stampa Vaticana come fosse un porporato qualsiasi.

Il reverendo monsignore, per anni coccolato nei salotti romani, era stato di fatto bollato - e mai evidentemente perdonato - come colui che non aveva adeguatamente vigilato, in quanto in vacanza, quando Ratzinger decise di firmare la prolusione del libro dell'ultraconservatore cardinale Robert Sarah, successivamente «messo da parte» perché in un altro testo aveva minato i fondamentali del pontificato di Bergoglio. Modus operandi opposti tra i due Papi, che trovano ulteriori differenze profonde nel collegio cardinalizio: 64 i cardinali viventi, dei quali 34 elettori, membri con meno di 80 anni, quelli nominati da Ratzinger; mentre quelli di Francesco sono 121 (dei quali 95 elettori e 26 non elettori) provenienti da 65 nazioni, 21 delle quali non avevano mai avuto un cardinale in precedenza.

Tra i custodi dell'ortodossia di Ratzinger alcuni «pezzi forti» come i cardinali Raymond Leo Burke. Gerhard Ludwig Müller e ovviamente Sarah. Il prossimo Papa, quando mai sarà, giocherà tutto con questi numeri. Forse il simbolismo numerico della Bibbia può aiutarci a comprendere come andrà a finire. Spirito Santo permettendo. Amen.

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