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Votare al referendum è anche un modo per omaggiare Giovanni Falcone

Mario Benedetto
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Questo è un giorno in cui non si può che parlare di giustizia, come valore supremo di condivisione d’intenti e propositi. È il giorno in cui ricorre il triste anniversario della strage di Capaci, alla vigilia di un momento che può essere importante per la giustizia e per la natura del suo ruolo di pubblico servizio. Partiamo dalla considerazione che proprio di questo momento, purtroppo, in molti sono all’oscuro: solo il 56% di noi italiani è a conoscenza del prossimo referendum sulla giustizia del 12 giugno (Ipsos) dunque del valore che possono avere le nostre risposte ai quesiti referendari finalmente proposti. E addirittura pare solo il 28% sia intenzionato ad andare alle urne. 

Abrogazione della “legge Severino”, limitazione delle misure cautelari, valutazione dei magistrati, riforma del Csm, separazione delle carriere dei magistrati: questi in estrema sintesi gli argomenti oggetto dei quesiti sottoposti al voto popolare.  

Un elenco che, già da sé, ci fa rendere conto della portata storica di certe questioni, annose per il nostro sistema giudiziario e sociale. 

Prendiamo il caso della separazione delle carriere. La questione ci ricorda che siamo fermi ai tempi di Cossiga, senza oggi avere Cossiga, verrebbe da dire. Non esiste più il livello di quei dibattiti, non esiste più la statura di quei personaggi. Sia degli interpreti delle nostre idee sia, possiamo riconoscerlo, di coloro che ne rappresentano opposte, ma cui si può comunque riconoscere un’autorevolezza. Oggi diradata. Forse è qui che trova spiegazione quella percentuale di popolazione così distante dall’appuntamento con questo voto. Che ci consegna però una buona notizia: si parla di giustizia, si “fa” giustizia. 

Oggi in due modi: con la memoria, valore che società evolute e civili devono avere premura di mettere al centro dei loro elementi fondanti. Senza memoria non c’è futuro, soprattutto rispetto al lavoro e all’esempio offerto, letteralmente, da un italiano come Giovanni Falcone. È uno dei nostri principali motivi di orgoglio compattarci attorno a figure come la sua, attorno ai valori che incarna.

Al contempo è uno delle più grandi ragioni di rammarico non veder ancora avverata la sua profezia che la mafia come “fatto umano” abbia una fine. Qui entra in gioco il secondo aspetto citato rispetto al “fare giustizia” e riguarda la nostra più stretta attualità, quella che possiamo scrivere, almeno in qualche nuova pagina che rappresenti un possibile e altrettanto nuovo inizio, con il prossimo voto. 

Nel rispetto di ogni idea e orientamento, quel che c’è da sottolineare è l’esigenza della responsabilità da parte di chi esercita la giustizia e da parte di chi, come i cittadini di oggi, dovranno partecipare attivamente e dire la loro su questioni che possano marcare importanti tacche di progresso. Non solo giuridico, ma civile e sociale.

Non entriamo nel merito dei quesiti ma valutiamo, a nostro buon cuore, l’impatto che l’espressione popolare può avere su più fronti di una giustizia rispetto alla quale sono ancora troppo frequenti, per un Paese che possiamo ritenere civile come il nostro, le notizie di ritardi, lentezze, in-giustizie. Che vanno dalla giustizia tributaria a quella civile, da errori che cambiano la vita a processi, come da ultime notizie, di ben 22 anni per cause civili. C’è da recuperare la grande fetta di esclusi da quel 32% di italiani che accorda oggi fiducia alla magistratura (Ipsos).

Ognuno metta la mano sulla propria coscienza, ma anche sulla scheda referendaria che non rappresenta solo una possibilità di cambiamento, ma anche un momento democratico per eccellenza: l’appuntamento ad esprimerci, quella chiamata al volto tanto desiderata, quanto altrettanto spesso sottovalutata. 

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