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Sciopero magistrati, l'Anm difende solo privilegi corporativi

Andrea Amata
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Il protagonismo della magistratura è da trent’anni il convitato di pietra non solo delle dinamiche politiche, ma degli stessi equilibri istituzionali, e l’uso disinvolto dell’obbligatorietà dell’azione penale ha troppo spesso violato la cultura dello stato di diritto, tanto che in più occasioni gli ultimi presidenti della Repubblica hanno dovuto esortare il mondo togato a "non sottrarsi ad una seria riflessione critica su sé stessa, a non cedere a esposizioni mediatiche o a sentirsi investita di missioni improprie che possono mettere in discussione l'imparzialità dell'ordine giudiziario” (Napolitano); e, all’indomani dello scandalo Palamara, a scongiurare “conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza della magistratura; la cui credibilità è indispensabile al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica” (Mattarella). Autorevolissimi richiami finora rimasti però inascoltati: l’Anm, infatti, ha sempre negato l'evidenza, continuando a denunciare manovre esterne per delegittimare la magistratura, fingendo di non sapere che, semmai, sarebbe più corretto parlare di autodelegittimazione.

Ieri, il presidente Santalucia ha giustificato lo sciopero - definito addirittura “generoso e responsabile” – affermando che era necessaria una risposta forte a una riforma dell’ordinamento giudiziario “non conforme allo spirito della Costituzione”. Si tratta però, a tutti gli effetti, di un capovolgimento della realtà, perché la riforma Cartabia è solo il tentativo, peraltro timido, di riportare la giustizia nell’alveo costituzionale del giusto processo dopo anni di derive giacobine culminate con l’abolizione di fatto della prescrizione. Il minimo etico e sindacale, insomma, che una classe politica ancora condizionata dal populismo giudiziario è stata in grado di partorire.

Ma per l’Anm, nonostante gli scandali, le faide e la degenerazione correntizia, la giustizia deve restare un santuario intoccabile, e qualsiasi riforma viene quindi colpevolizzata come un attentato all’indipendenza della magistratura, per cui il “fascicolo personale” diventa una forma di controllo politico e non un tentativo minimale di responsabilizzazione dell’attività professionale che eviti almeno di trasformare in titoli di merito anche tanti disastri processuali consumati sulla pelle dei cittadini (oggi il 99,2% delle valutazioni dei magistrati si conclude con un giudizio positivo, un dato che cozza plasticamente con le drammatiche statistiche sugli errori giudiziari e sulle ingiuste detenzioni).

Anche i referendum, per il sindacato delle toghe, sono ovviamente una sorta di inutile provocazione, “perché non risolvono nulla e non migliorano il servizio”. E invece sono l’antidoto più efficace contro il circo giacobino secondo cui i pm hanno sempre ragione, in nome della funzione redentrice del potere giudiziario nei confronti di una politica e di una società inclini sempre e comunque a delinquere.

Così, attraverso un pervicace arroccamento corporativo, si imputa al Parlamento la volontà non di migliorare la giustizia, ma di mettere il bavaglio al controllo di legalità che la magistratura deve esercitare nei confronti della politica. E’ uno scontro che va avanti dai tempi di Tangentopoli, e che ha lasciato sul terreno carriere distrutte, governi caduti e riabilitazioni tardive con un’unica costante: nessun magistrato ha mai pagato per i suoi errori, grazie a un’intangibilità sconosciuta a qualsiasi altra democrazia. Il referendum sulla responsabilità civile non è stato ammesso, ma gli altri su cui saremo chiamati a votare daranno comunque una spinta all’uscita dalla palude giudiziaria. Bisogna, però, andare a votare il 12 giugno. E’ un dovere civile.

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