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Fuga radical chic dal Twitter di Elon Musk: “Libertà a rischio, ce ne andiamo”

Alessio Buzzelli
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C'è un nuovo cattivo in città, pronto a turbare i sogni dei «buoni&giusti» di tutto il mondo: il suo nome è Elon Musk e la sua colpa è quella di aver appena acquistato il social network Twitter per la modica cifra di 44 miliardi di dollari. Da due giorni l'intera galassia della sinistra occidentale ha iniziato a «cinguettare» istericamente contro il nuovo proprietario, nemmeno avesse visto il fantasma di Donald Trump tornare improvvisamente alla Casa Bianca. È finita la libertà di parola, hanno scritto all'unisono i dem nostrani e d'Oltreoceano, è tornata la censura, ce ne andiamo da Twitter. E d'accordo che ormai ci siamo abituati alle grida d'allarme che l'establishment politico-culturale così detto «democratico» è solito lanciare quando le cose non vanno come dice lui, ma questa volta c'è voluto un po' per capire i motivi di tanto dimenarsi e scuotere il capo e lanciare moniti sulla fine della democrazia. Che cosa ha fatto Musk per ottenere cotanto sdegno da tutti questi autoproclamatisi custodi della libertà? A un primo sguardo, la risposta più sensata è: niente, letteralmente niente. A parte comprare Twitter, ovviamente, sul cui futuro però il miliardario sudafricano non ha ancora detto né annunciato alcunché.

 

 

La verità è che Musk è un personaggio che non piace alla «sinistra che piace» - probabilmente perché non ha mai fatto parte ci certi ambienti lib-dem e che pertanto, come da tradizione, va immediatamente additato come un nemico della democrazia da boicottare senza pietà, prima ancora che possa fare qualcosa. Lo schema è sempre lo stesso, che tu ti chiami Trump, Le Pen o Musk non importa: se non sei dei nostri sei automaticamente cattivo e antidemocratico e non puoi giocare con noi, secondo l'ormai consolidato doppio standard attraverso il quale la sinistra politicamente corretta ormai interpreta il mondo. Una riedizione in chiave digital-moralistica della classica litigata da «asilo Mariuccia» («il pallone è mio e se non mi lasci vincere me lo porto via») cui ha partecipato - a sorpresa ma nemmeno tanto - la meglio intellighenzia del Twitter, tra giornalisti, politici e scrittori. Musk, da parte sua, da fine provocatore qual è e conscio della crisi di nervi in corso tra i radical chic di tutto il mondo, ieri ha scritto un tweet in cui invitava i suoi peggiori critici a «rimanere su Twitter, perché questo è ciò che significa libertà di parola». Due frasi che in pochi minuti hanno fatto scoppiare un putiferio (oltre che parecchi fegati). A dare fuco alle polveri del piagnisteo ci ha pensato nientemeno che Carola Rackete, la quale da queste parti non si vedeva da un bel po'(a proposito: non ne abbiamo sentito la mancanza): «Sono così stanca di Twitter- ha scritto la tedesca - sto considerando di cancellare questo account, soprattutto ora che Musk ha comprato la piattaforma». Un modo indubbiamente ingegnoso per autocensurarsi, quello escogitato dalla giovane «capitana» (la quale, temendo una censura che ancora non c'è, decide direttamente di cancellarsi dal social), che ha riscosso un certo successo presso molti «vips» della piattaforma.

 

 

Beppe Servegnini, ad esempio, ha twittato che «se "free speech" vuol dire libertà di insultare, diffamare e mentire» o, addirittura, di «sovvertire la democrazia (come Trump)», allora «Twitter non ci interessa più». Sarebbe a questo punto interessante capire come possono costoro sapere con certezza che con Musk Twitter sarà un luogo di diffamazione e di sovvertimento della democrazia: lo conoscono? Ci hanno per caso parlato? O forse hanno doti d'oracoli? Stesse domande che andrebbero fatte ad Amnesty International, pure lei preoccupata dalla possibile promozione dell'hate speech da parte Musk, e a tanti altri. Persino Barack Obama, in un incontro tenutosi ieri a Stanford, ha casualmente affermato che «i social network possono distruggere la democrazia»: certo, ma solo da oggi in poi. Fino a 48 ore fa, invece, erano baluardi della libertà - specie quando Twitter cancellò il profilo ufficiale di Donald Trump, in quel momento Presidente Usa in carica. Allora i dem giustificarono tale scelta dicendo che i social sono società private e dunque libere di fare quello che vogliono. Ora, improvvisamente, non è più così.

 

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