Palermo, maxi-sequestro da 100 milioni di euro: chi è Giuseppe Ferdico, il "re dei detersivi"
Lo chiamavano “il re dei detersivi”. Una sorta di ossimoro, tipico dell'ironia del siciliano medio. Da una parte il titolo nobiliare, per rendere omaggio ad un uomo di successo. Tanto ricco quanto pericoloso. Dall'altro la maligna specificazione del settore di “lavoro”, bollato dagli uomini d'onore come tutt'altro che lodevole. “Cose da femmine”. Giuseppe Ferdico aveva accumulato un autentico tesoro. Tra denaro, quote societarie, terreni e immobili. Un patrimonio che, da questa mattina non è di fatto più suo. È infatti definitiva la confisca dell'imprenditore palermitano, 65 anni, leader nel settore dei detersivi nel capoluogo siculo.
La sezione misure di prevenzione, su richiesta della direzione distrettuale antimafia, ha emesso un decreto di confisca del patrimonio divenuto irrevocabile con sentenza della corte di cassazione, per un valore stimato di oltre cento milioni di euro. Il provvedimento è stato eseguito dai finanzieri del comando provinciale di Palermo. Un'indagine che si perde nei meandri del tempo, eseguita tra il 2006 ed il 2008 dagli specialisti del Gico.
Secondo la tesi accusatoria, Ferdico era contiguo a “Cosa Nostra”, in particolare alle famiglie mafiose di Acquasanta e San Lorenzo. Non vanno poi dimenticate le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, e la corrispondenza (i famigerati “pizzini”) sequestrata in occasione degli arresti dei boss Bernardo Provenzano e Salvatore Lo Piccolo. Un impero da cento milioni di euro, composto da quote societarie di sei imprese, supermercati, conti correnti, tredici terreni, sedici appartamenti e anche due ville di lusso. Assolto nel primo grado di giudizio, il “re dei detersivi” è stato condannato in appello a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. A seguito del ricorso in cassazione, la suprema corte ha rinviato gli atti alla corte d'appello, che non si è ancora pronunciata.
Gli inquirenti sono certi che Ferdico sia l'ennesima dimostrazione che la mafia, da oltre un decennio, investe i propri introiti prevenienti dallo spaccio di droga, dall'usura e dal controllo del territorio, nell'economia legale. Avvelenando così i pozzi e trasformando il concetto stesso di libera concorrenza in una remota ipotesi, utile solo per un manuale di economia.