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La zampata dell'Arma. Pugno di ferro dopo lo scandalo di Piacenza

Il comandante Nistri manda via i vertici provinciali. Il gesto che serve per ritrovare la fiducia degli italiani

Franco Bechis
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A 48 ore esatte di distanza dallo scandalo della caserma Levante di Piacenza il comandante generale dei carabinieri Giovanni Nistri ha sostituito l’intera catena di comando della provincia emiliana. Lascia il comandante provinciale Stefano Savo che pure era arrivato solo nel novembre scorso, che abbandona anche la guida del reparto operativo e del nucleo investigativo. Ai tre posti da ieri sono al comando altrettanti ufficiali che hanno curricula con i fiocchi. Al comando provinciale il colonnello Paolo Abrate, che veniva dalla guida del gruppo Milano. Alla guida del reparto operativo il tenente colonnello Alfredo Beveroni, che arriva dalla scuola sottufficiali di Firenze. E alla guida del nucleo investigativo il maggiore Lorenzo Provenzano, che arriva dalla guida di una sezione dei Ros di Milano. Da ieri, dunque, l’intera catena di comando sotto cui era la caserma dello scandalo è cambiata, e la rapidissima scelta che segue di 24 ore l’inizio della indagine interna affidata al generale Enzo Bernardini che guida il Vittorio Veneto dimostra come i vertici dei carabinieri abbiano capito non solo la gravità di quanto accaduto, ma anche i danni che quel gruppetto di manigoldi ha causato all’Arma.

 

Era davvero necessaria questa zampata per fare capire anche agli arrestati che la gravità dei loro comportamenti non troverà appiglio o comprensione alcuna all’interno dell’Arma, perché chi la guida ha letto intercettazioni e gesta dell’appuntato Peppe Montella e compagni con la rabbia e il disgusto che abbiamo provato tutti noi. Ieri guardando le agenzie di stampa per seguire gli sviluppi dell’inchiesta piacentina (era il giorno dei primi interrogatori dei manigoldi) digitando la parola «carabinieri» ho trovato un lunghissimo elenco di notizie. Dalla Calabria dove è stato rinviato a giudizio per corruzione un sindaco pizzicato proprio dall’Arma con le mani nel sacco, a Cormano dove poche ore dopo una rapina a un supermercato in cui è stata ferita da un colpo di pistola una bimba di 5 anni i carabinieri hanno ammanettato il colpevole. Eccoli i nostri carabinieri. A Roma hanno pizzicato una madre zingara che stava svaligiando un appartamento in un palazzo di corso Vittorio Emanuele II sfruttando come complici due minori poco più che bimbe. Ad Arezzo hanno preso subito un cinquantenne che aveva tentato di rubare opere nel Duomo. A Mondragone hanno fatto scattare le manette a uno spacciatore di cocaina. A Napoli con i Nas hanno sequestrato pesce avariato a una pescheria-ristorante. Lo stesso corpo che a Pescara ha messo i sigilli a un ristorante cinese dove regnavano blatte e insetti. A Milano hanno messo le manette a un cliente che aveva assassinato un transessuale con 80 coltellate., A Genova hanno fermato un traffico di pannelli fotovoltaici destinati in Africa. A Foggia hanno arrestato il colpevole dell’incendio doloso di un bus turistico del 2 giugno scorso. A Torino hanno arrestato tendendogli una trappola un uomo che la convivente aveva denunciato per violenza privata. In Germania hanno rintracciato un latitante della ’ndrangheta dando le indicazioni alla polizia tedesca per arrestarlo, come è avvenuto nel primissimo mattino di ieri. Ad Alvito, provincia di Frosinone, hanno fatto irruzione in casa arrestando un uomo che aveva sequestrato lì la ex compagna e i suoi due figli ventenni minacciandoli con una pistola.

Un piccolo elenco nel mare delle notizie di ieri. E ce ne erano anche di tipo diverso, che raccontano storie passate e recenti sul sangue versato dai militari dell’Arma per difendere la legalità. Perché nell’ergastolo comminato ieri al boss della ’ndrangheta Rocco Santo Filippone e a quello della mafia Giuseppe Graviano, c’era anche giustizia per il sangue versato da carabinieri negli anni Novanta in tre attentati a loro pattuglie.

E come dimenticare oggi (ieri sera c’è stata una fiaccolata per ricordarlo) quel gigante buono di Mario Cerciello un anno dopo il suo barbaro assassinio avvenuto a Prati nella notte fra il 25 e il 26 luglio?

Mi impressionò molto quel delitto, perché quei carabinieri erano stati i miei vicini di lavoro per quasi dieci anni ed era capitato di incontrarci e chiacchierare più volte. Andai anche per questo a rendere omaggio al povero Mario nella camera ardente allestita dietro la loro stazione. E vidi per ore migliaia di romani, perfino i bangladini venditori di rose della zona, commossi in fila per ore sotto il sole a rendergli l’ultimo omaggio.

Ecco il delitto più odioso compiuto dalla banda di manigoldi di Piacenza: avere sputato su quell’abbraccio e quell’amore che da sempre unisce gli italiani e l’Arma. Ma ne sono sicuro: gli italiani non la daranno vinta a Peppe Montella e compagnia, e quel rapporto così profondo e particolare non si spezzerà per le loro meschine gesta.

 

 

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