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Parla Zangrillo: l'emergenza Covid? È finita da due mesi

Il primario del San Raffaele di Milano mette in guardia contro gli eccessi: «Evitiamo di portare al panico e alla morte sociale»

Francesco Storace
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«È un mese che in Lombardia non si muore più di Covid»: ascolti il professor Alberto Zangrillo dal suo studio al san Raffaele di Milano e ti chiedi che cosa è questa emergenza. E spiega in questa intervista a Il Tempo: «Oggi la mia più grande preoccupazione in campo sanitario è riprendere a curare quei malati che, per colpa di Sars Co V2, trascuriamo da almeno 5 mesi».

 

Un momento, professore. E che vuol dire quando leggiamo i dati sui decessi? Come spiega che ogni giorno vengano comunicati dati relativi a pazienti deceduti per Covid?
«È un modo di comunicare scorretto che non rispecchia la realtà. Ora Le rispondo dal mio studio, di fronte a me è seduto il mio collega, direttore della neuro rianimazione Prof. Luigi Beretta che mi dice: “Il nonno di Pierino è coinvolto in un grave incidente stradale sulla tangenziale di Milano. Viene portato in emergenza in Pronto Soccorso, laddove oltre alle manovre di rianimazione, viene sottoposto, come tutti i pazienti, che entrano in un ospedale italiano, al tampone orofaringeo. Purtroppo, nonostante le cure, il nonno di Pierino, nel frattempo risultato Covid positivo, dopo due giorni viene a mancare in conseguenza del grave trauma subito. La causa di morte del nonno è chiara a tutti ma purtroppo verrà addebitata al virus».

 

Ma ne è certo?
«Nel modo più assoluto, ci interroghiamo tutti i giorni sul perché di questi dati di cui non abbiamo alcun riscontro nella pratica clinica giornaliera. Ci siamo informati presso gli organismi competenti ed abbiamo ricevuto la conferma. D’altro canto tutti sanno che in Italia l’eccesso di mortalità da SARS COV 2 è fortunatamente azzerato da due mesi. Concludendo: Attenzione, distanziamento massima prudenza, rispetto delle regole ma rispettiamo anche la Verità

Insomma. Con i dati bisogna andarci cauti.
«I cittadini hanno bisogno di verità: se dichiarare pubblicamente che il virus, in Italia non produce gli stessi problemi di tre mesi fa equivale ad essere ritenuto irresponsabile, mi assumo volentieri questa responsabilità soprattutto perché è condivisa dai circa 400 medici ed infermieri che hanno lavorato e lavorano al mio fianco dal 21 febbraio un importante contributo ad un dibattito scientifico costruttivo e non di parte. Insieme abbiamo affrontato il dramma della morte ogni giorno e nessuno di loro il 1 giugno mi ha chiamato per chiedermi se ero diventato pazzo».
Non siamo più nel dramma dunque...
«Evocare l’emergenza porta al panico e alla morte sociale».
Professor Zangrillo, si sente in guerra col mondo?
«Pensavo che la guerra forse contro il virus, lo abbiamo combattuto senza risparmiarci alimentando inconsapevolmente la facile retorica dell’eroismo. In realtà abbiamo tutti fatto il nostro dovere con uno straordinario gioco di squadra che ha visto coinvolti infermieri e medici di tutte le specialità cliniche. Poi il 31 maggio, dopo 40 giorni senza ricoveri in terapia intensiva, un messaggio di ottimismo, fondato sull’osservazione clinica ha scatenato le polemiche».
Lo sa di essere diventato un beniamino social?
«Sono grato ai tanti che interpretano correttamente il significato delle mie dichiarazioni ma vorrei cogliere l’occasione che mi date per ricordare che la realtà descritta è quella di un gruppo che ha curato migliaia di malati trovando anche il tempo di studiare il virus e produrre ricerca».
Perché quell’espressione topi da laboratorio rivolta ad illustri virologi?
«Ammetto di nutrire un po’ di diffidenza contro i “leoni da tastiera”. Mi fido molto di veri virologi che hanno costruito la loro reputazione contrastando i micidiali virus del passato in stretta correlazione con i clinici. Coloro che vivono per denigrare il lavoro altrui continueranno a sopravvivere nutrendosi dell’invidia. Ricordiamoci poi che tutte le più grandi scoperte della medicina moderna sono transitate dal letto del malato».
Riusciremo a tornare a vivere normalmente?
«Questa mattina sono dovuto passare in banca per una firma. All’interno solo impiegati fuori una signora anziana che piangeva e mi diceva che era la terza mattina che tentava di entrare, perché priva di appuntamento. Una volta entrato ho semplicemente detto agli impiegati: “Continuate così e vedrete chi verrà in banca tra qualche mese!”. La società civile sta morendo, tutte le attività lavorative sono correlate e si stanno spegnendo con una lunga e dolorosissima agonia».
Serve davvero la proroga dello stato di emergenza?
«Io sono convinto che gli Italiani siano un popolo esemplare nell’esercizio della responsabilità. Noi siamo stati la culla della civiltà e quindi siamo geneticamente predisposti al bene comune. Il bene comune oggi è buon senso: norme igieniche, non uscire di casa se si ha la febbre, coinvolgere il proprio medico per ogni dubbio, rispettare le norme di sicurezza indicate. Evocare l’emergenza porta al panico e alla morte sociale. Pretendere il rispetto di regole giuste aumenta il senso di responsabilità di ognuno di noi».
Chi dà questi consigli al premier?
«Il quadro clinico del Grande malato Italia è nelle mani del Comitato Tecnico Scientifico, formato da illustri colleghi con cui non voglio entrare in conflitto. Ho riconosciuto a loro il grande merito di aver suggerito in tempi esatti un doloroso ma necessario lockdown. Ora vorrei che le loro indicazioni tenessero in maggior considerazione le evidenze cliniche attuali. In questo momento storico c’è bisogno di condivisione, coraggio e lucida visione di un quadro globale. Oggi ia mia più grande preoccupazione in campo sanitario è riprendere a curare quei malati che, per colpa di Sars Co V2, trascuriamo da almeno 5 mesi. Ripeto: in Lombardia nessuno muore per colpa del virus da almeno un mese».
 

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