Il condono e il valore del compromesso
"E' stato un buon compromesso" ha detto Luigi Di Maio al termine del Consiglio dei ministri che ha licenziato il decreto fiscale. Si riferiva al "condono" (o alla "pace fiscale", come preferiscono chiamarla nel governo) che permetterà a chi non ha dichiarato redditi aggiuntivi fino a 100mila euro di mettersi in regola pagando al fisco un quinto rispetto al dovuto. Una misura invisa al popolo grillino ma necessaria per non far saltare il banco del governo con la Lega. Ed è forse questa la novità più sostanziale emersa da una giornata di grande tensione con gli alleati. L'aver sdoganato una parola finora sconosciuta nell'universo a 5 Stelle: compromesso. In fondo di compromessi Di Maio in questa prima esperienza a Palazzo Chigi ne sta facendo tanti. Sta condividendo la responsabilità dell'esecutivo con un altro leader, ha dovuto rinunciare alla poltrona di presidente del Consiglio, ha dovuto archiviare le battaglie per la chiusura dell'Ilva e per la cancellazione della Tap, ora si è dovuto arrendere anche al condono. Non è detto che sia un male, anzi. Innanzitutto per il Paese, perché la politica è l'arte del possibile, non certo dell'utopia, benché i due protagonisti del governo continuino ad ammantare ogni loro mossa con un'aura di trascendenza ("il governo del cambiamento", "la manovra del popolo", "la povertà è stata abolita" ecc). Ma anche per le sorti degli stessi governanti. Se l'elettorato si dimostrerà così maturo da digerire questi "compromessi" - e nulla fa presagire il contrario, visti i livelli di consenso che il governo mantiene - Salvini e Di Maio potrebbero sentirsi legittimati a fare un ulteriore bagno di realtà quando sulla manovra si consumerà lo scontro con Bruxelles. Sarà in quella sede che occorrerà fare i compromessi più importanti, sia da una parte che dall'altra. Sempre che l'obiettivo sia quello di governare davvero per cinque anni e realizzare le riforme promesse. Se, al contrario, si è licenziata una manovra al di fuori di tutti i vincoli solo per andare allo scontro con la Ue e lucrarne i vantaggi elettorali alle Europee, significherà che Salvini e Di Maio non ritengono i propri elettori così consapevoli delle difficoltà dell'arte del governo (e della scarsezza delle risorse). C'è solo da capire se le basi della Lega e del M5S saranno anche così ingenue da credere che davvero un'Europa a trazione sovranista come quella che dovrebbe uscire dalle prossime elezioni sia disposta a fare concessioni economiche all'Italia. Voi ce li vedete i nazionalisti dell'Europa del Nord tollerare un'Italia che fa debiti in allegria?