La privacy prima di tutto. L'anti-Google europeo si chiama Qwant
“Mio padre dice che rubi i dati delle persone”, dice un ragazzino che dall'aspetto sembra indiano, a Mark Zuckerberg in uno dei meme che girano in questi giorni. “Non è tuo padre”, gli risponde il fondatore di Facebook senza fare una piega. D'accordo, è solo una vignetta ironica e non c'è arma più abusata del sarcasmo quando uno scandalo si affaccia alla finestra dei social. Il punto, però, è che il caso Cambridge Analytica è destinato a modificare la percezione del rapporto con i media digitali di molti utenti. Insomma, ormai è chiaro, i social sanno tutto di noi: lavoro, gusti, relazioni ma anche aspirazioni e stati d'animo. E nella visione imprenditoriale della Silicon Valley i dati personali sono una merce come un'altra e come tale vengono venduti e comprati: le informazioni sono materia prima da acquisire, integrare, elaborare e rimettere sul mercato. Una merce preziosa e pericolosa perché delinea profili e permette di prevedere comportamenti, consente di segmentare consumatori e capire in anticipo, se non orientare, l'opinione pubblica. "Ma sui social network non siamo davvero noi stessi. Su Facebook ad esempio diffondiamo informazioni che non rispecchiano necessariamente chi siamo, ma servono a creare l'immagine che vogliamo dare. È nei motori di ricerca che lasciamo le tracce più delicate e che possono essere utilizzate per sapere davvero tutto di noi. Se siamo malati non lo scriviamo sui social, ma cerchiamo sintomi e cure su Google", ci spiega Eric Léandri, presidente di Qwant, motore di ricerca nato in Francia con vocazione europea che ha l'obiettivo dichiarato di competere con Big G come efficacia rispettando però la privacy degli utenti. Abbiamo incontrato Léandri insieme al country manager per l'Italia Fabiano Lazzarini prima della presentazione di Qwant all'ambasciata di Francia, dove si è parlato anche della GDPR - General Data Protection Regulation per definire le norme a cui dovranno aderire aziende e istituzioni europee nel delicato equilibrio tra salvaguardia della riservatezza dei cittadini e cybersicurezza. Finanziato in parte dalla Cassa Depositi e Prestiti francese e dalla Banca di Investimenti Europea, Qwant - che ha già un'estensione .it e una versione in italiano per dispositivi mobili, nonché sezioni dedicate alla musica, ecommerce, notizie e ricerche sui social - non utilizza alcun strumento di profilazione degli utenti. E non restituisce risultati di ricerca in base "a chi è" l'utente. L'obiettivo di Qwant - che nasce nel 2013 - è entrare in un mercato dominato da Google con quote che oscillano sul 90% perché "solamente un mercato plurale può essere garanzia di completezza e possibilità di scelta - spiega ancora Léandri - Solo la presenza di molteplici attori, può permettere al web di restare un luogo democratico in cui le persone possono fruire di un'informazione libera fatta di contenuti oggettivi e non basati su ciò che i motori sanno di noi. È necessaria un'alternativa europea che, tra l'altro, abbia i propri server e infrastrutture in Europa a garanzia della difesa dei dati delle persone. Qwant è tutto questo". La questione è cruciale: i dati che più o meno volontariamente - alzi la mano chi legge tutte le clausole delle policies e poi decide di dare o meno il consenso - diamo in cambio di un servizio spesso risiedono materialmente negli Stati Uniti e, per dirne una, sono sottoposti al Patriot Act e in certi casi le autorità possono accedervi in qualsiasi momento. Ma un motore di ricerca come Qwant non vuole solo salvaguardare i dati personali dell'utente. L'obiettivo è offrire una visione neutrale della realtà digitale, lontana dalle filter bubbles che il web e social tendono a creare fornendo agli utenti i contenuti più vicini al loro punto di vista e ai loro gusti. Le cosiddette "camere di riverbero" che trasformano le nostre bacheche social in zone di comfort in cui la priorità ce l'hanno le opinioni più simili alle nostre. A questo punto la domanda è: Qwant funziona bene come Google? Secondo Léandri, forte di test svolti da terze parti, per ogni query i risultati tra i due motori si discostano di circa il 4%, anche se è difficile sbilanciarsi sulla qualità delle informazioni comprese in questo "scarto". "Qwant non fornisce risultati in base all'identità dell'utente ma a criteri oggettivi - rivendica Léandri - In aggiunta ci sono informazioni provenienti dal buzz del web: se stiamo cercando 'Barcellona' mentre è in corso il Mobile World Congress è normale che i risultati relativi all'evento guadagnino posizioni. Ma ripeto, questo perché il mondo sta parlando di un certo argomento, non perché sappiamo chi è l'utente e a cosa è interessato. Anche la pubblicità, la principale fonte di finanziamento di Qwant, è focalizzata sulle informazioni che l'utente sta cercando, non sul suo profilo". La mole di dati che ”regaliamo” alle corporation è enorme e cresce esponenzialmente intrecciando le piattaforme: sovrapponendo i dati di servizi di mappe, email, social, motori di ricerca e navigazione si può stabilire quasi ogni dettaglio della nostra vita pubblica e privata. Una difesa è necessaria. L'obiettivo di Qwant è conquistare il 5-10% del mercato europeo delle ricerche online nei prossimi quattro anni, sulla scia delle 2,6 miliardi di richieste processate nel 2016, molte delle quali in Francia dove è il 96mo sito più frequentato. Un obiettivo da tenere d'occhio. Il successo o il fallimento di Qwant sarà un termometro importante per capire se la società digitale ha raggiunto una nuova consapevolezza sull'importanza della privacy e della neutralità della rete.