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Troppe aggressioni e minacce, gli arbitri scappano dal calcio

Francesco Storace
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Non sparate sull'arbitro, perché poi qualcuno che vi prende sul serio si trova. Soprattutto nei campionati minori, dove ci sono solo schiaffoni e anche di peggio e non certo moviolone e dibattito sugli errori, veri o presunti, delle giacchette nere. Nei piani bassi del calcio tutte le settimane è un'avventura arbitrare una partita di calcio. Sotto la vetta dei campionati professionisti, la malapianta della violenza contro gli arbitri è pesantissima e ogni domenica si registrano guai per chi si avventura nell'impresa. Sta diventando una tragedia sociale per l'impatto che lo sport - e in particolare il calcio - ha in mezzo a noi. Ma quei quattromila arbitri che in pochi anni sono spariti fanno riflettere. Spariti nel senso di dimessi, mica rapiti. Non hanno più voglia di rischiare. Non ne vogliono più sapere, proprio per troppa violenza, non ne vale la pena. E se valessero davvero i regolamenti in vigore, si fermerebbero i campionati. Essi negano il diritto di reagire - anche perché uno contro undici o addirittura una tifoseria, non sarebbe conveniente, diciamo - e soprattutto esigono che di fronte ad una situazione in cui la sicurezza è assente bisogna chiamare la polizia. Figurati dove la trovano, al massimo le pattuglie (poche) in circolazione fanno una perlustrazione sui campi dei paesi e poi tornano alle attività ordinarie.

 

 

Recentemente è dovuto finire in ospedale in Sicilia l'arbitro Melodia di Trapani. Per Altofonte-Iccarense si è beccato un cazzottone come si deve. A Benevento il pubblico ha assistito in terza categoria alla testata di un calciatore al direttore di gara. Si sentono isolati gli arbitri, specie nelle serie minori. Perché i professionisti, almeno loro, almeno hanno fama e quattrini grazie ai diritti d'immagine. Nelle sfide di strapaese, solo botte e lividi. Con rimborsi da una cinquantina di euro a seconda dei chilometri percorsi. Il «chi me lo fa fare» prevale. Anche perché la funzione di questi giudici è sempre contestata in ragione della faziosità del tifoso. Per dirla con Ennio Flaiano, «l'italiano ha un solo vero nemico: l'arbitro di calcio, perché emette un giudizio». Ne rimangono 29mila, dicono gli amanti della statistica. Ma qualche danno serio c'è ancora, se addirittura arbitri di livello superiore vengono ogni tanto designati per supplire alle assenze nei campi del calcio minore. Per un arbitro diventa impossibile tutelarsi. Insulti dagli spettatori. Dai dirigenti. Dai calciatori. E i giornali che appiccano il fuoco. Fermarsi. Dovranno capirlo gli zucconi che aggrediscono gli arbitri che le partite non ci saranno più. Fantastico l'epitaffio vergato da un umorista, scrittore e attore della vicina Spagna: «Un paese avrà raggiunto il suo massimo grado di civiltà quando le partite si terranno senza arbitri». Ma così, ahinoi, il problema non si risolve. Il fenomeno della violenza contro gli arbitri va avanti da troppo tempo. Addirittura dal 2007 l'Associazione italiana arbitri ha istituito l'Osservatorio sulla violenza agli ufficiali di gara quale strumento di monitoraggio degli atti di violenza in danno dei propri associati. Si devono essere stufati di monitorare: gli ultimi dati disponibili si fermano alla stagione 2018-2019 e restano impressionanti con 457 episodi di violenza censiti. E fu la stessa media del triennio precedente. Quegli oltre 450 episodi di violenza, si verificarono nelle categorie inferiori (prima, seconda e terza categoria) o in quelle in cui giocano i più piccoli (juniores, allievi e giovanissimi) ad opera di giocatori, dirigenti o soggetti estranei. È rilevante notare come gli episodi di violenza fisica e violenza fisica grave superarono il 60 per cento del totale e che una percentuale significativa riguarda atti di violenza contro le donne.

 

 

In Calabria il maggior numero di episodi, seguita dalla Sicilia e dal Lazio. Trentino Alto Adige e Molise i territori più «tranquilli» per giocare a pallone. C'è pure qualche numero recente, comunque. Le cifre delle violenze subite dagli arbitri sono impressionanti anche in questa stagione. A dicembre ne sono state rese note 85; in 4 di queste situazioni la vittima era una donna. Si sono verificati 25 atti gravi, che hanno portato a 126 giorni di prognosi prescritta dalle emergenze sparse in tutta Italia. Questa volta 12 episodi in Campania, 10 in Piemonte, 9 in Toscana, 8 nel Lazio, 7 in Lombardia e Umbria. E può raggiungerti da qualsiasi gruppo: calciatori (47), dirigenti (29), anche estranei (9), e tra questi ultimi i genitori. Già i genitori. Non ci sono solo quelli dei calciatori, che sognano carriere fantastiche per i loro figli e non sopportano di vederle troncate da una punizione non fischiata. Ma anche quelli degli arbitri, per i quali sarebbe già sufficiente un tantinello di serenità. I loro genitori vanno alle sezioni Aia e sembrano contenti: «Mio figlio è più riflessivo a scuola, più ordinato a casa. E tra voi ha trovato nuovi amici. Però temiamo di mandarlo in campo e vivere ogni domenica con il terrore di essere chiamati al pronto soccorso», è il tenore della principali testimonianze a verbale. Si sono messe nero su bianco anche le principali forme di violenza. Anzitutto la violenza fisica grave, cioè la violenza che procura un danno fisico all'ufficiale di gara, accertato mediante refertazione sanitaria. La violenza fisica, senza accertamento da parte di un presidio ospedaliero. La violenza tentata da parte di tesserati (calciatori, allenatori e dirigenti) che, però, non cagiona danni fisici all'ufficiale di gara. La violenza morale, ossia condotte discriminatorie in danno degli ufficiali di gara poste in essere da soggetti tesserati. Racconta un arbitro ultraquarantenne che ha deciso di chiuderla qui e dedicarsi all'attività imprenditoriale: «Gli stessi giovani non hanno più voglia di mettersi in campo. Sei sempre solo nelle decisioni. E pure quando arriva la violenza».

Ora comincia a discuterne anche il Parlamento, con una proposta di legge di vari gruppi, tesa ad inasprire le pene. Ci si chiede se possa essere sufficiente: recentemente il gran capo degli arbitri, Alfredo Trentalange, ha parlato dell'assenza di una cultura della legalità. Quello che è il giudice della gara diventa l'anello debole della partita, indifeso e bersagliato da tutti. Ma se non si recupera un senso di civiltà a partire dai campi minori e se non si smette di frignare per un rigore in più o in meno persino nelle serie superiori, il calcio rischia di veder ridotte sempre di più le sue potenzialità. Se l'espressione «crisi di vocazione» coniata proprio da Trentalange è reale, il fenomeno non può più essere sottovalutato.

 

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