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Il Covid si porta via Bellugi, campione pure nella malattia

Francesco Storace
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La forza dell’esempio ti rende immortale. Entri nella storia. Quando se ne vanno gli invincibili è sempre così: ne condividi il destino, e lo maledici perché te li hanno portati via. Dovresti invece ringraziarlo per averlo avuto in vita. Ma ci vuole tanta fede. Se avesse solcato il prato dell’Olimpico, Mauro Bellugi sarebbe stato venerato anche dalle nostre parti, dove ai campioni del calcio si tributano ovazioni anche se solo passano la palla al loro compagno di squadra. Uomini come lui nello sport diventano bandiere con una stretta di mano, un abbraccio, un coro della curva. Bellugi se ne è andato, lasciando tutti tristi. Perché ha sofferto esageratamente.

 

 

Oggi a 71 anni nessuno dovrebbe essere consegnato al Creatore. Ma stavolta la difesa che lo rese campione come terzino e come stopper fino all’azzurro della Nazionale non ce l’ha fatta. Per ammazzarlo, il Covid gli ha azzannato pure le gambe, facendogliele amputare. Ma Bellugi non ha perso mai il sorriso e la voglia di vivere, nemmeno in quelle condizioni. Sì, sono i campioni ad insegnarci il valore della vita, ad amarla. In fondo è una storia simile, salvo il triste epilogo, a quella di Alex Zanardi. Autentici miti. Esempio per tante generazioni.

Bellugi ha giocato, lottato, combattuto con le maglie dell’Inter, del Bologna, del Napoli, della Pistoiese. Ma non sono solo quelle tifoserie ad avere il diritto al cordoglio, alle lacrime. Resta stendardo indimenticabile per tanti italiani che amano il calcio e che lo rivorrebbero come a quel tempo. Certo, in uno stadio chiuso al popolo si sarebbe sentito a disagio, lui capace di salvare la porta dalla furia avversaria nelle condizioni più disperate. Non piangono solo quelli che lo applaudivano. Su tutti i campi di calcio, ci sarà oggi un minuto di silenzio. E tutti avremo in testa il pensiero di quelle gambe con cui campava giocando da campione a pallone. La zampata da rigore gliel’ha data il maledetto Covid. Eppure, nonostante l’amputazione, un arto dopo l’altro nel mese di novembre, non aveva smesso di sorridere. E, almeno pubblicamente, manifestava una straordinaria voglia di reagire. Se ne è andato a 24 ore dal derby milanese. E magari da lassù guarderà la partita col cuore di tifoso e di sportivo, che nell’aldilà saranno più compatibili. Anche la politica lo piange. Il milanista Matteo Salvini lo saluta come «persona perbene e grande combattente»; l’interista Ignazio La Russa lo ricorda «gioviale, esuberante, sempre allegro, grande calciatore e interista doc».

 

 

È l’Italia del calcio - e non solo - che ne esce commossa. Era il 4 novembre quando lo portarono al Niguarda di Milano. Il coronavirus lo aveva pizzicato. Ma fu un attacco spaventoso, perché Bellugi soffriva anche di altre patologie. Prima il 13 novembre e poi la settimana dopo, il 20, ai medici toccò amputare quelle gambe preziose. Epocale, straordinario, commovente, il suo commento dopo quello che aveva subito: «Quello che è successo a me è successo. Le cose succedono, che devi fare? Diceva un saggio: se la cosa è irrisolvibile, perché preoccuparsi? Io grazie a Dio non mi preoccupo, l’ho risolta per il momento e la voglio risolvere fino in fondo».

Campione anche nel momento di incamminarsi alla fine della vita. Un medagliere morale appuntato al petto dopo quello sportivo. Giusto il tempo di soffiare sulle candeline del settantunesimo compleanno e poi l’ultimo viaggio verso una vita nuova, più celeste che nerazzurra. L’Inter gli ha donato un ricordo meraviglioso: «Se il calcio è così amato è perché quando le storie del campo diventano storie di vita i calciatori non sono solo campioni ma degli esempi». Era diventato bravo anche come commentatore di calcio. Oggi tocca a tanti suoi colleghi giornalisti, quelli dell’ultimo miglio di strada, ricordarlo come uomo di valore e di valori. Su quella bara deponete un tricolore, quello dei mondiali con la Nazionale. Bellugi, campione per tutti.

 

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