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Bolt: il calcio dopo l'atletica

Carlo Santi
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«Dopo l'atletica? Ci sarà spazio solo per il calcio». Solo le parole di Usain Bolt che è al passo d'addio dalla sua amata pista. Sorridente, allegro, bizzarro come sempre, il Fulmine si è presentato alla conferenza stampa a Londra alla vigilia della sua ultima apparizione: i 100 metri sabato sera e poi la 4x100 nel giorno di chiusura dell'evento, il 13 agosto. A “The Brewery” in Chiswell Street, il luogo scelto dal suo sponsor per un'ora in grande allegria con l'asso giamaicano incalzato da un presentatore speciale, il britannico Colin Jackson, ex super ostacolista negli anni Novanta. Bolt, che ha spesso stuzzicato i giornalisti di tutto il mondo arrivati nella City per il Mondiale, ha chiuso l'ora – un'ora intera di parole in libertà – ricevendo la visita dei genitori che gli hanno consegnato le nuove scarpe della Puma, un paio di “chiodate” viola, oltre a quelle d'oro, che ricordano il colore della maglia della sua prima gara. Li ha ringraziati, Usain, ha detto che loro sono stati i primi motivatori per farlo diventare grande in atletica dove ha cominciato a guadagnare soldi per se stesso ma anche per aiutare loro. Bolt, siamo a Londra, la città delle Olimpiadi del 2012. Cosa ricorda di allora? «Il meraviglioso pubblico dello stadio Olimpico. Anche per questo sono impaziente di cominciare. La gente di Londra è stata fantastica con me. Devo dire che un pubblico così appassionato l'ho trovato solo a Pechino, nel 2008». Sabato correrà i 100 metri: se dovesse perdere, proverebbe a continuare per rifarsi? «Scherzate? Non ci penso neppure: io sono qui per vincere. Certo, sento dire che non sono il favorito ma, statene certi, questo è un pronostico sbagliato. Sono in forma e, soprattutto, in crescita. No, non perdo, questo è sicuro». Cosa si aspetta da questo Mondiale? «Il risultato di Montecarlo (9”95 sui 100 metri, ndr) mi soddisfa e mi ha dato certezze. Qui, poi, con i primi due turni, batteria e semifinale, crescerò ancora. E in finale conterà l'esperienza e, in modo particolare, tenere i nervi distesi». La fiducia non le manca... No, perché mi sento bene, ho l'esperienza giusta e mi fido anche del mio allenatore che è ottimista. Dico la verità: mi sento al cento per cento». Tutti pensano al dopo Bolt. Lei, da dentro, crede che De Grasse, che negli ultimi tempi non è stato gentile con lei, sarà il suo erede? «Che devo dire di De Grasse? Che prima ha dimostrato di avere talento, ma deve dimostrarlo in futuro, quando conterà. Se lo incontro in pista, lo saluto. Certo, non lo chiamo: non ho neppure il suo numero di telefono». Adesso se ne va dall'atletica, almeno ha deciso così. Farà come tanti altri campioni che si dedicheranno al golf o al tennis? «Neppure per idea. Né golf né tennis: il mio nuovo sport sarà il calcio. Non vedo l'ora di giocare a pallone». Quest'anno, in primavera, lei ha provato dolore per la morte del suo amico Germaine Mason, secondo nel salto in alto a Rio 2016. «Sono stato fermo per diverse settimane per quel dolore. Lui era un amico vero. Posso dire che prima non avevo perso nessuno con cui così legato. Ecco, per quasi un mese non sono riuscito ad allenarmi». Perché si è dedicato alla corsa? «Semplice: ho giocato a cricket, che è stato il mio primo sport, e ho capito di essere bravo in atletica perché sapevo correre forte. Il mio allenatore mi ha chiesto di provare in pista, ho cominciato e ho subito vinto». Si allenava molto, allora? «Molto? Poco poco. Vincevo perché avevo talento. Allenamenti e attenzioni per lo sprint sono arrivati dopo. Ero piccolo, avevo 13 anni quando ho cominciato e ho vestito per la prima volta la maglia della Giamaica. Che emozione quella volta per la trasferta alle Barbados».  

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