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Venticinque anni tradito dal cuore

Un momento dei primi soccorsi prestati dal medico del Livorno al centrocampista della squadra toscana, Pier Mauro Morosini, dopo il malore nel corso della partita di serie B allo Stadio Adriatico

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PESCARA Sembrava scivolasse sull'erba fradicia, concentrato sull'azione che si sviluppava più in là. In guardia. I capelli portati lunghi, inzuppati dalla pioggia, appena scossi dal movimento. Sembrava scivolasse: Piermario Morosini, invece, stava morendo. È caduto a terra una volta, di pancia, inarcato in uno strano balzo. Con uno scatto doloroso si è rialzato, è andato giù di nuovo e con un guizzo elettrico si è tirato in piedi. Poi ancora a terra, immobile. A venticinque anni ha resistito alla morte come poteva, aggrappandosi all'erba di uno stadio che non era il suo stadio, tra gente che non era la sua gente. Affidandosi a un ultimo pensiero, muto. L'arbitro che gli dava le spalle non ha visto nulla: sono stati i giocatori, i compagni di squadra del Livorno e i ragazzi della panchina del Pescara a chiedere di fermare il gioco. I medici erano già scattati in campo per le manovre di emeregenza, mentre gli occhi straniati del pubblico si spostavano dal pallone alla periferia del gioco. Alla morte.  Pescara-Livorno si chiude temporaneamente così, con uno 0-2 che ha poco o nulla da dire. Come quel cielo grigio che riesce solo a gettare acqua su uno stadio annichilito. Pioggia fina e spinosa. Le mani del medico sociale del Pescara Ernesto volano sul cuore del giocatore, solide, professionali. Nell'attesa di un'ambulanza che sembra non arrivare mai. Minuti, quattro non di più, per una macchina dei Vigili urbani che blocca l'accesso al campo. Minuti senza tempo. È Marco Verratti che si scuote, corre verso l'ingresso e prende a spingere a tutta forza la barella strappata all'ambulanza e portata in campo a mano. Corre d'istinto Verratti, che ha perfettamente capito che per quel ragazzo che ha solo qualche anno più di lui la speranza è appesa al nulla. Accanto a Morosini è già arrivato il professor Leonardo Paloscia, primario di Cardiologia dell'ospedale di Pescara, che era seduto tra il pubblico per la partita. «Non ha mai ripreso il battito», dice con amara professionalità, uscendo dall'ospedale. Inutile il  defibrillatore, perché non c'è segnale elettrico, inutile quel massaggio cardiaco portato avanti per più di un'ora e mezza con ogni mezzo possibile. Si arrendono le mani e si arrendono le macchine. Perché continuare non sarebbe servito a nulla. Mentre Morosini esce in barella si consolida la certezza che la partita non può andare avanti. Pescara, d'altra parte, ha già pagato dazio allo «show must go on» e difficilmente sarebbe digerita una decisione diversa dalla sospensione. Troppo fresco il ricordo di quel Pescara-Bari impietosamente giocato con il lutto al braccio per un altro cuore impazzito. Quello di Franco Mancini, preparatore dei portieri biancazzurri e uomo di fiducia di Zeman, che lo aveva lanciato nel Foggia dei miracoli e lo aveva voluto di nuovo con sé sperando di coinvolgerlo in un'altra magia. E quando Morosini è andato via in molti, troppi, hanno pensato al «Mancio» lasciando scivolare gli occhi sulla panchina vuota, dove erano abituati a vederlo seduto. La speranza sposta un po' di tifosi  verso l'ospedale: un moto di calore umano verso quei giocatori sconosciuti che sembrano vivere lo stesso destino toccato ai biancazzurri qualche settimana prima. I toscani hanno un po' di tempo per sperare; non molto, in verità. Morosini è caduto a terra intorno alle 15,30. Poco più di un'ora dopo è tutto finito. I giocatori di Pescara e Livorno escono dall'ospedale mescolati in un abbraccio, terribilmente umano e terribilmente triste. I tifosi della curva hanno preparato in fretta e furia uno striscione di speranza: inutile anche quello, come le mani e come le macchine.  C'è l'ultimo applauso, potente, rivolto ai giocatori delle due squadre. Che adesso appaiono per quello che sono: ragazzi inermi di fronte al destino, all'irragionevolezza della morte. L'autobus del Livorno va via che non è ancora sera e sa già che quello a Pescara non sarà un bel ritorno. Certo porterà con sé un pensiero dolce: il ricordo di un ragazzo di venticinque anni che sorride, corre e alza le braccia al cielo per festeggiare il gol. Una manciata di minuti prima del buio. Prima che lo stadio si svuotasse e lasciasse sul prato un uomo solo. Zdenek Zeman è stato l'ultimo ad uscire dall'Adriatico chiuso in un silenzio più forte di ogni voce. È rimasto a Pescara, nella sua casa. Inutile provare a rintracciarlo per strappargli anche solo una parola di cordoglio, la sua proverbiale ritrosia è una barriera insuperabile: il suo dolore personale per la morte di  Mancini, ancora troppo vicino e troppo intenso. La sua indignazione per una partita giocata troppo presto ancora tagliente.  Forse lo capirebbe solo Anna, quella ragazza che a tarda sera è scesa in un albergo di Pescara circondata dalla premura di altri giocatori, del presidente del Pescara Sebastiani, del presidente di Lega Abodi. Di tanti, ma non di quel suo ragazzo di venticinque anni, dai capelli scuri portati lunghi, con cui non dividerà più sogni.

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