Un dramma del passato che ci riporta al presente Di calcio si può morire
Quandouna tragedia sconvolge il mondo dello sport, più intensa diventa l'incredulità, più forte il sentimento di ribellione verso qualcosa che mai dovrebbe verificarsi. È lo sport a suggerirci immediatamente l'immagine della gioventù che sorride e che trasferisce a tutti la sua voglia di vivere, il futuro delineato da certezze che gli slanci dell'età rendono granitiche. Piermario aveva 25 anni, nella sua Bergamo aveva intrapreso una carriera ricca di confortanti auspici, di promesse di una vita migliore, dopo che quella familiare era stata devastata dalla scomparsa dei genitori e di un fratello. Con la maglia dell'Atalanta aveva incrociato anche i coetanei della Roma in una finale Primavera di sette anni fa, vinta dai giallorossi. Poi si era trasferito a Udine, reclutato da una società da sempre capace di fare incetta di verdi talenti, in Italia ma anche in ogni parte del mondo. Le sue esperienze le aveva maturate adeguandosi alla dura gavetta del campionato cadetto, la massima serie appena sfiorata, tappe nel Veneto, a Bologna, il ritorno alla casa calcistica fino a gennaio. Quando, per l'ineludibile esigenza di sfoltire un organico pletorico, era stato prestato al Livorno, la maglia amaranto che in passato aveva conosciuto la gloria, perfino uno scudetto conteso al grande Torino, sarebbe stata la sua ultima. Se ne è andado su quel,campo di Pescara che sembra colpito da autentica maledizione, due settimane fa il cuore aveva tradito Franco Mancini, il braccio destro di Zeman che era stato portiere anche del Foggia e della Lazio. Adesso ci si interroga, anche se i medici non ritengono rilevante l'episodio, sul ritardo di quell'ambulanza bloccata per qualche minuto da una vettura dei Vigili Urbani. Alla fine si parlerà di sorte maligna, di una fatalità, una volta accertato che le squadre nelle quali Piermario aveva militato hanno sicuramente esercitato il dovere dei controlli ricorrenti. Quelli ai quali ogni atleta in attività deve sottoporsi per garantirsi l'idoneità. Si ferma, il calcio italiano, per una volta la ragione è stata capace di scavalcare la burocrazia, forse un atto divenuto obbligatorio dopo che Pozzo e Moratti avevano già deciso che Udinese-Inter non si sarebbe giocata: volontà condivisa. Non resta che il pianto, quello che accompagna ogni evento luttuoso, ma in modo particolare la scomparsa di chi alla vita da troppo poco si era affacciato. Ci sono tanti sport che il pericolo accompagna costantemente, da quelli dei motori a quelli estremi diventati una sgradevole moda. Sarebbe oltraggioso definire uno sport la corrida, tradizione crudele, ma non troveremo accenti più lirici e toccanti di quelli che Garcia Lorca aveva dedicato a Ignacio Sanchez Mejas, ucciso da un toro «a las cinco de la tarde». Ma la morte di un calciatore, un ragazzone che aveva fatto collezione di maglie azzurre nelle Nazionali giovanili, fino a diventare un pilastro della «Under 21», non trova né giustificazione né consolazione. Da situazioni di patologie cardiache erano usciti bene giocatori anche di primo piano, Antonio Cassano tornato in campo dopo gli incubi dello scorso ottobre, Muamba del Bolton letteralmente miracolato secondo il parere dei medici che lo avevano riportato in vita. Ci saranno delle spiegazioni, mi auguro più convincenti rispetto a quelle che mai hanno fatto chiarezza sulla scomparsa di Giuliano Taccola, l'attaccante della Roma morto a Cagliari, nello spogliatoio, con rimbalzi di accuse che mai si sono placate, tra Helenio Herrera che aveva preteso di averlo in campo nonostante la febbre alta, e i sanitari che non erano stati capaci di impedirlo. Sono passati più di quarant'anni, e una famiglia aspetta ancora una risposta. Ora il calcio dispone di risorse, sconosciute in passato, immediati i soccorsi con i defribillatori, ambulanze a disposizione. Eppure il dramma di Pescara ammonisce che, ancora, di calcio si muore.