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DiBenedetto, derby e veleni

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Thomas DiBenedetto

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Aria nuova, facce nuove. Il derby è stravolto a tutti i livelli, anche ai piani altissimi dove è salito un presidente straniero, il primo della storia romanista e della stracittadina. Thomas DiBenedetto non può mancare all'appuntamento e deve concedersi un breve intermezzo nel suo viaggio di lavoro che sta affrontando in questi giorni in Europa. Stasera, o al più tardi domattina sbarcherà nella Capitale, guarderà la partita in tribuna autorità dove è atteso anche il suo socio James Pallotta (ma con lui non si sa mai), incrocerà per la prima volta il «rivale» Lotito e lunedì risalirà sull'aereo per poi tornare a Roma in prossimità dell'assemblea dei soci in programma il 27 a Trigoria e dei nuovi incontri istituzionali. L'approccio con il derby non è stato felicissimo. «Mi hanno detto che questa gara è come una guerra civile» si è lasciato scappare durante il suo recente blitz a Londra. Una leggerezza senza conseguenze. In quei giorni ha concesso anche un'intervista all'emittente americana Bloomberg, diffusa solo ieri. «Stiamo pagando i peccati del passato» dice DiBenedetto, già vicino alla polemica con la Sensi quando definì «painful», dolorosa, la sua gestione. Lo scontro con il «vecchio» non gli interessa ma al tempo stesso non può nascondere di aver trovato una situazione imbarazzante nei conti della Roma e nell'organizzazione societaria. La rivoluzione è appena iniziata ma c'è un legame col passato. Dai documenti sull'Opa appena lanciata si scopre che DiBenedetto percepirà uno stipendio vicino all'1,1 milioni di euro lordi tanto contestato alla Sensi oltre a un biglietto aereo mensile per gli Usa, autista e scorta. E in pieno clima derby Lotito approfitta per pungerlo: «Non voglio dire se lo stipendio percepito alla Roma da DiBenedetto mi sorprenda o meno. Faccio una sola considerazione: nè io nè gli altri componenti il consiglio di gestione e di sorveglianza della Lazio abbiamo mai percepito emolumenti». Intanto la Roma pensa a ricostruire e punta a raccogliere più in là i risultati. «Quando hai i giovani dalla tua parte è molto più facile. Poi ci vuole uno schema valido, una tattica ben precisa e una personalità nel gioco». Luis Enrique ci sta provando con gli allenamenti più duri dai tempi di Zeman, Totti dixit. «A cinque anni da oggi - dice convinto il presidente - vedo una Roma molto forte, di successo. Ma vedo anche la vittoria dal punto di vista economico: l'obiettivo è quello di equilibrare i conti senza fare la Champions League. Il guadagno possibile è notevole nel calcio: media, merchandising, nuovo stadio». Gli americani vogliono costruirlo entro cinque anni, appunto. «Abbiamo in programma ulteriori incontri, i siti potenzialmente disponibili sono un paio. Tempi? Idealmente si potrebbe parlare di tre anni, ma più probabilmente parliamo di cinque». Il costruttore Luca Parnasi ha offerto il terreno di Tor di Valle e potrebbe rientrare anche nella partita che si sta giocando sulle quote della Roma in mano a Unicredit. «Non posso parlare a nome della banca - spiega DiBenedetto - ma do per scontato il fatto che cederanno la loro partecipazione a un paio di romani». Il più convinto sembra Toti, insieme a lui Parnasi o un altro partner strategico. Comunque romano, altro che cinesi. Il presente si gioca sul campo, dove la squadra e l'allenatore sono sempre più compatti. «Inizialmente la stampa italiana ha pressato Luis Enrique e ha provato - accusa - a farmi dire cose che sarebbero state in contraddizione con l'allenatore, che invece ho sostenuto al cento per cento. Non vogliamo una squadra in cui si faccia affidamento su un solo giocatore». L'ha metabolizzato anche Totti che giovedì ha sposato il progetto come ha fatto, per adesso solo a parole, De Rossi. DiBenedetto ha l'appoggio e le attenzioni di tutti, anche troppe. «Non mi piace la visibilità ma all'improvviso sono diventato un personaggio pubblico. Quando torno negli Stati Uniti posso condurre una vita normale». Qui no. Domani sera più che mai.

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