Così finiamo nel pallone
La notizia che i calciatori intendano scioperare è di quelle che inducono il buon umore e le battute scontate. Un redivivo Pellizza da Volpedo potrebbe ridipingere Il Quarto Stato, con i calciatori in Ferrari al posto dei braccianti a piedi e con le veline tatuate al posto della madre con in braccio il pupo. Se si supera il fastidio e ci si spinge nel merito, però, si scopre che in quel mercato c'è molto dell'Italia finita nel pallone. Il calcio è un affare ricchissimo, ma le società sono quasi tutte alla canna del gas. Diverse sarebbero già saltate, se non si fossero varate norme fiscali di salvataggio. Non basta, perché alla faccia dello sport il business ha preso il sopravvento, compreso il malcostume di violare le regole. Il capitalismo del calcio, insomma, ricalca e amplifica i guasti del capitalismo nostrano: poca attenzione al mercato, scarsa perizia nei conti, gestioni societarie a dir poco disinvolte, affaristi che giocano solo per sé. Quando decideranno di buttar fuori i disonesti e rendere più stringenti i controlli, sarà sempre troppo tardi. Veniamo ai calciatori. Il moralismo un tanto al chilo ha più volte criticato i loro alti guadagni. Sbagliato: ciascuno ha diritto a guadagnare quanto il mercato consente. Se è tanto, buon pro gli faccia. Loro, però, oggi protestano per due cose: l'addizionale Irpef e gli allenamenti dei fuori rosa. In parte, per vergogna, si sono rimangiati la prima cosa, ma è sulla seconda che hanno più marcatamente torto. La questione delle tasse non sarebbe sorta se la norma, ancora da discutere e approvare, non fosse bislacca. È chiaro che le tasse le paga chi percepisce il reddito, in questo caso i calciatori, ed è evidente che un'addizionale sul redditiero non può essere ribaltata su chi lo paga, ma è anche vero che le tassazioni retroattive non sono lecite. Quindi, se in passato le squadre pagavano al netto, non comprendendo le tasse, cosa succede nel caso in cui la regola generale cambia con effetti non solo futuri? Vedete che è un problema di tutti, non dei soli calciatori. I quali, comunque, non possono pretendere i vantaggi economici del contratto personalizzato e quelli protettivi del collettivo. In quanto ai politici, Calderoli in testa, smettano di fare i demagoghi e minacciare aliquote doppie (se leggessero la Costituzione saprebbero che non si può) e mostrino di aver capito che il problema è nella norma. Roba che palleggiano loro. I calciatori chiedono, però, che se una società li ingaggia, pagandoli più che profumatamente, da quel momento chi gioca e chi non gioca abbia gli stessi diritti e faccia li stessi allenamenti, in questo modo togliendo autonomia decisionale alla proprietà. E' dissennato: nel momento in cui si spiega ai lavoratori che non possono avere reddito e sicurezza a prescindere dal mercato e dalla produttività, sarebbe offensivo concedere ai calciatori ricchezza e onori, a prescindere dall'entrare o meno in campo. Non ha senso. L'idea dello sciopero è grottesca, ma utile a capire quanto il pallone contenga brutta aria.