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Perdita di competitività, penuria di talenti, conti sempre più in perdita Un report di Arel, Pwc e Figc fa la radiografia al declino del calcio italiano

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Ciòche manca, per adesso, è la volontà del malato di curarsi. Della crisi del calcio italiano ormai si parla in maniera quasi fatalista. Difficile invertire un declino trasversale - economico, di talenti, di risultati - che ha avuto, nell'ultima stagione, la manifestazione più evidente nella perdita del quarto posto in Champions. Di nuovo, ora, c'è un'analisi effettuata dall'agenzia di ricerche Arel, dalla società di consulenza Pwc e dalla Federcalcio in cui, letteralmente, si danno i numeri della crisi. Una lettura interessante anche in virtù del Fair Play finanziario in procinto di diventare realtà. Si chiama «Report calcio 2011» e permette di sfatare anche alcuni falsi miti cari ai dirigenti italiani. Ma andiamo con ordine. IL TUNNEL Negli anni '90 la serie A era considerata il campionato più bello del mondo. Una fiera dei sogni che, si sarebbe scoperto poi, si posava su basi molto fragili. A testimoniarlo il cataclisma economico esploso nel decennio successivo. Basti pensare alle 133 società professionistiche fallite negli ultimi 25 anni, delle quali 70 dal 2004 a oggi. Non sono state risparmiate realtà gloriose come Napoli e Fiorentina, ma ovviamente la più colpita è stata la Lega Pro. Tra le cause un parco di società professionistiche, 132, che non ha eguali nel calcio europeo. Anche per questo l'annunciata riforma della ex serie C, che mira a snellire pesantemente l'elenco, appare urgente. Non fosse altro per dividere la torta in meno fette. IL DEFICIT Il calcio italiano opera in perdita. Un deficit trasversale, che colpisce tutte le leghe e praticamente tutte le squadre: sono solo 15 su 132 i bilanci chiusi con un utile nella stagione 2009/10. La perdita totale è stata di oltre 345 milioni. Mediamente il «buco» non è enorme, ma il problema principale è un altro. BASSI RICAVI Sì, perché con l'entrata in vigore del Fair Play finanziario più che diminuire le perdite sarà importante aumentare i ricavi, e da quel punto di vista l'Italia, un tempo all'avanguardia con l'Inghilterra, è stata distanziata dalla Premier League, superata dalla Bundesliga e quasi raggiunta dalla Liga. Inoltre, la maggior parte delle entrate continua ad arrivare dai diritti televisivi, oltre il 65% del totale, mentre la percentuale di merchandising e ricavi da stadio resta stabile e bassa. Infine, anche la ricca fetta garantita da Sky & Co. proviene quasi totalmente dal mercato interno (solo 10% venduto all'estero) a differenza, ad esempio, del calcio inglese, che ha molto più appeal internazionale e vende oltremanica circa un terzo dei propri diritti tv. STRADE SBAGLIATE I dirigenti italiani, oltre a scannarsi sui diritti tv, hanno finora individuato due soluzioni: una tassazione più morbida come quella spagnola e una legge sugli stadi di proprietà che consenta di imitare l'Inghilterra, dove i club con impianti propri sono ben 20. Si tratta in entrambi casi di falsi miti. Se, infatti, si eliminano dall'analisi le «eccellenze» Barcellona e Real Madrid, il calcio spagnolo risulta tra i più poveri del continente, inferiore addirittura alla Ligue 1 francese. Ma Valencia, Atletico o Villarreal hanno colto comunque risultati importanti a livello continentale. Per quanto riguarda gli impianti di proprietà, invece, in Germania ce n'è solo uno, eppure ciò non ha impedito ai club tedeschi di riempire di tifosi i propri stadi, di ultima generazione, e di trarne ricavi assai maggiori a quelli italiani e praticamente pari a quelli inglesi. LA PASSIONE Come hanno fatto? Semplice: ricordandosi che uno stadio può essere gestito al meglio anche se è di proprietà del Comune. Un po' come fa un buon manager con l'azienda di un altro. Hanno sfruttato al massimo gli spazi a loro disposizione, hanno cavalcato il merchandising, hanno reso la partita uno spettacolo indimenticabile dal vivo prima che in televisione. Quello che in Italia non si fa ancora. Per gli impianti vecchi (età media in serie A 69 anni), per la violenza (ma almeno in questo caso il trend è positivo), per noncuranza. Eppure è proprio la passione il punto da cui ripartire. Perché, nonostante tutto, gli italiani continuano ad amare il calcio oltre ogni cosa: il 70% della popolazione tra i 15 e i 69 anni, circa 30 milioni di persone, è interessata al settore. E sarebbe disposta a fare qualsiasi sacrificio per abbonamenti, biglietti, o magari una tazza da latte con la faccia del calciatore preferito. È un sentiero ancora poco battuto. Ma è lì che si gioca la battaglia per la sopravvivenza.

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