Il prescelto è Dirk
Diavolo d'un tedesco. Ci voleva lui, WunderDirk Nowitzki, per mandare all'aria quello che, nella stagione appena conclusa della Nba, sembrava scritto: la vittora di Miami dopo aver messo insieme i tre tenori, Wade, Bosh e LeBron James. Qualcuno pensava ai Lakers come unici possibili avversari, spazzati presto via da quella Dallas bella a vedersi ma a cui nessuno dava troppo credito. E invece eccolo qui, il miracolo, quello che ha portato il primo titolo della storia Nba all'ombra dei pozzi di petrolio della città texana. Un 4-2 sigillato dalla vittoria decisiva messa a segno in trasferta con un perentorio 95-105 che ha fatto saltare i tappi di champagne delle bottiglie griffate Mavericks. Non solo Nowitzki, però, in questo successo. Il ragazzone nato a Wurzburg, Mvp della finalissima, è stato la punta di diamante di un gruppo che ha premiato gli sforzi dell'eccentrico Mark Cuban. Lui, il proprietario-ultras che dopo la vittoria ha dichiarato: «Non mi laverò per 6 mesi», uomo più multato della Nba, ha affidato alle sapenti mani del coach Rick Carlisle una squadra dove voglia di rivincita, esperienza e talento si sono miscelati per annientare l'ingorda ed opulenta Miami. È stata la rivincita non solo di Nowitzki, che ha cancellato dalla biografia la nomea di perdente di successo passandola con gioia all'avversario LeBron James, ma anche di gente come Marion, Chandler, del minuscolo Barea, del «nonno» Jason Kidd, che in bacheca ora aggiungerà l'anello ai cinque ori conquistati con il team Usa, e soprattutto di quel Jason Terry che ancora aveva aperta la ferita del titolo visto sfuggire nel 2006 e che ha cancellato tutto con una splendida prova nella sfida decisiva. Eccoli qui allora i Mavericks felici e belli, che hanno chiaramente lanciato un messaggio al mondo Nba: non bastano i nomi a mettere su una squadra vincente. Servono idee e serve cuore. E di tutto ciò Dallas è piena zeppa. Come spiegare altrimenti quel filo conduttore che ha portatola franchigia texana a credere tanti anni fa nelle qualità di Detlef Schrempf, primo «deutch» a sbarcare nel mondo della pallacanestro americana, e poi a dar seguito all'azzardo puntando su quel lungagnone sgraziato pescato nella seconda serie tedesca mentre provava a farsi spazio con i colori della natia Wurzburg. Qui fu scelto con il numero 6 dai Mlilwaukee Bucks nel draft del 1998 che però dimostrarono di non credere in lui girandolo immediatamente a Dallas in cambio di Robert Traylor e Pat Garrity. In Texas ancora benedicono quel giorno che ha cambiato la storia della franchigia per sempre. E hanno brindato, in una notte che non è sembrata finire mai, ringraziando chi non ha puntato su WunderDirk, oggi indiscusso re teutonico della Nba. A Miami intanto c'è chi si lecca le ferite. È il «prescelto», l'uomo che la scorsa estate aveva fatto fermare l'America per annunciare la sua scelta di trasferirsi da Cleveland a Miami, per raggiungere l'amico Wade e assieme a Bosh formare il trio che avrebbe dovuto lasciare le briciole agli avversari. Oggi gli Heat si sono svegliati perdenti, chiedendosi cosa nella storia cestistica di LeBron James, eterno secondo fino a prova contraria, non vada. «Non mi fascio la testa - si è giustificato lui in un impeto d'orgoglio - o la nascondo sotto qualcosa. Chi mi critica oggi festeggia, ma domani si sveglieranno tutti con la stessa vita di sempre e con gli stessi problemi». Filosofia un pò spicciola di chi, battuto dall'angelo biondo alla guida dei Mavs, è stato ancora una volta solo ospite d'onore nella serata della vittoria.