Aggrappati ai passaporti
Nell'altalena di celebrazioni e lapidazioni che ha accompagnato tre quarti di secolo di rapporti tra la maglia azzurra e gli oriundi, legittimi e fasulli, adesso si vola in cielo. Merito di Thiago Motta, fresco di arruolamento nella legione italiana grazie ad ascendenti fedeli alle loro origini venete, prezioso supporto per gli attaccanti renitenti al gol, firma di qualità su quel successo di Lubiana che irrobustisce il già solido primato del girone, nella corsa alla fase finale del campionato d'Europa per Nazioni. Che sarà ospitato, dopo che la candidatura italiana era stata irrisa e sbeffeggiata, da Polonia e Ucraina, non più parenti poveri nel panorama dell'Est continentale. Un passo avanti verso la legittimazione di una rappresentativa multietnica, anche se i metodi di reclutamento non sono del tutto convincenti. Per carità, opinione personale, la stessa che mi aveva fatto guardare con scetticismo all'inclusione di Camoranesi nella formazione mondiale di Lippi. Non accettabile il riferimento alla Germania di Loew, nella quale tanti cognomi di protagonisti fanno pensare a precisi flussi migratori, però si tratta di giovani nati e cresciuti, ma anche educati, in terra tedesca. Per capirci meglio, è del tutto regolare che nella nostra Nazionale trovi posto Mario Balotelli, italiano di nascita e non di passaporto acquisito, mentre l'azzurro regalato da parentele è tutto da discutere. E si rischia il grottesco, non con Thiago Motta che ha generazioni tutte italiane alle spalle, ma con il tentativo di inserire Amauri attraverso improbabili incroci. Giusto pagare subito i debiti di riconoscenza, verso chi ha attraversato oceani per giocare da protagonista due Mondiali vinti, nel quadriennio dal '34 al '38. Nella seconda edizione della Coppa Rimet, giocata in Italia, dopo che il battesimo in Uruguay nel 1930 era stato poco più di una riunione familiare, di importanza fondamentale l'apporto dell'argentino Luisito Monti, centromediano classico, e del connazionale Raimundo «Mumo» Orsi, ala di straordinaria qualità. Utili contributi platensi anche da Cesarini, Demaria, Guaita. Per il trionfo francese di quattro anni dopo, un altro centromediano metodista, l'uruguagio Michele Andreolo, al proscenio accanto agli eroi fatti in casa, da Giuseppe Meazza, a Silvio Piola, a Giovanni Ferrari, più Gino Colausigh, slavo di Trieste, ribattezzato Colaussi per volontà del regime. Degli oriundi si sarebbe tornati a parlare, in termini assai meno entusiastici, in un altro quadriennio: segnato dalla sventura, sportivamente parlando, per i colori azzurri. Per la prima, e unica, volta nella storia dei Mondiali, l'Italia si sarebbe vista esclusa dalla fase finale di Svezia '58, quella tramandata alla leggenda dall'entrata in scena del numero uno «all time», l'allora imberbe Pelè. Ci aveva buttato fuori l'Irlanda del Nord dei fratelli Blanchflower, nonostante il massiccio ricorso a giocatori di buona qualità, ma senza un solo reale connotato italiano, da Ghiggia a Schiaffino, da Montuori a Da Costa, schiaffo bruciante l'umiliazione di Belfast. Sulla stessa discutibile strada del ricorso ai campioni arruolati in corsa sarebbe stato intrapreso il Mondiale cileno, per altro fattiva la collaborazione dell'arbitro inglese Aston, deciso a spianare la strada ai maneschi padroni di casa, ruvide sanzioni disciplinari a senso unico per decimare gli Azzurri, costretti ad anticipare il ritorno a casa. Pure, quella spedizione si era affidata a nomi di primo piano in campo internazionale, come Omar Sivori e Josè Altafini. Da quel momento, di reclute di origine dubbia si sarebbe parlato poco, ai giorni nostri la moda si ripropone, la speranza che antiche parentesi nere siano ormai definitivamente chiuse.