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Il coraggio e la fede dell'anti-divo

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Erail 2007 ma quelle immagini in mondovisione sono ancora negli occhi: la monoposto Bmw che si sbriciola sul muretto in fondo al rettilineo di Montreal e rimbalza poi dall'altra parte della pista sfiorando, inspiegabilmente, gli altri piloti lanciati a tutta sul tracciato canadese. Un miracolo dissero in molti, perché Robert Kubica ne uscì solo con qualche graffio e saltò il successivo Gp degli Usa solo per «motivi precauzionali». Da lì comparve sul casco del pilota polacco quella scritta in ricordo di papa Giovanni Paolo II, l'«amico» e connazionale che lo aveva «protetto della carambola di Montreal». Questione di feeling, ma soprattutto di fede per un pilota, anti-divo per eccellenza, un ragazzo arrivato dal basso senza gli sponsor milionari di molti suoi colleghi e che non riesce a star lontano dalle emozioni forti pur sapendo di dover fare i conti a ogni curva con la morte. La velocità è un virus incurabile, fino a un certo punto benigno, ma contro il quale non c'è medicina ne rimedio e che ci mette un nanosecondo a diventare letale. Chi fa questo mestiere lo sa e Kubica come molti suoi colleghi si è fatto male lontano dal suo sport: la storia lo racconta. Dallo schianto di Nannini che perse un braccio cadendo con l'elicottero, alla spalla fratturata di Valentino Rossi facendo motocross, alla mano di Biaggi in Supermothard, all'incidente in moto che rischiò di costare una gamba al discesista Majer. Fino, estremizzando, al terribile crash in Formula Indy che ha portato via entrambe le gambe a Zanardi: ma non la passione per le corse, della competizione. Una malattia, appunto... Ma Kubica i suoi antidoti se li era già giocati: probabilmente tutti. Nel 2003 il primo schianto nel quale rischiò l'amputazione del braccio destro, lo stesso rimasto ieri sotto le lamiere del guard rail a due passi da Savona: lontano anni luce dalle luci della ribalta di una Formula Uno che partirà tra poco più di un mese senza di lui: un assenza pesantissima, in tutti i sensi.

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