L'arabo non c'è I tappetari sì
Poco dopo le 11 di ieri mattina Aabar, il fondo sovrano di Abu Dhabi, ha smentito di essere interessato all'acquisto della Roma. La fonte è di quelle che tagliano la testa al toro: Mohamed Al-Husseini, amministratore delegato di Aabar. «Non abbiamo presentato un'offerta di acquisto per la Roma e non intendiamo farlo in futuro». Piccolo problema: Aabar è azionista di Unicredit, che a sua volta è proprietario della Roma. Anzi, dietro Mediobanca e dietro i libici, è con il 4,99 per cento il maggiore socio della banca di piazza Cordusio. Secondo piccolo problema: esattamente martedì fonti più che accreditate (cioè Roma 2000 e banca Rothschild, l'advisor per la vendita) hanno fornito la shortlist di acquirenti. Tra loro risulta che la sera prima - lunedì, quindi - proprio i dirigenti di Unicredit, dopo avere scartato non meglio identificati «interessi francesi» ed un «fondo misto Usa-Medioriente», abbiano piazzato Aabar, a seguire il gruppo americano DiBenedetto, infine Giampaolo Angelucci, proprietario di cliniche nonché editore di Libero e Riformista. Domanda: qualcuno dell'Unicredit, per esempio Piergiorgio Peluso, il responsabile Corporate Italia che ha in mano il dossier, o magari lo stesso ad Federico Ghizzoni visto che si aveva a che fare con un socio strategico della blasonata banca milanese, poteva fare un colpo di telefono ai colleghi di Abu Dhabi? Forse si sarebbe evitata una figura non brillantissima. Ma c'è anche un terzo piccolo problema. Anzi, non proprio piccolo. La Roma continua come se nulla fosse ad essere ammessa alle contrattazioni di borsa. Nessuno l'ha sospesa dal listino di piazza Affari. Nessuno degli azionisti ha avuto il buon senso e il buon gusto di chiederne la sospensione, nonostante ne avesse annunciata la vendita e avesse indetto una sorta di asta. O forse quella che si vuol far passare per un'asta. I risultati sono evidenti: il titolo della Roma era al massimo di 1,285 esattamente lunedì primo febbraio (voci sulle tre offerte, arabi compresi). È precipitato a 1,02 ieri pomeriggio, dopo la smentita ufficiale giunta dal Golfo Persico. Ha insomma guadagnato e perso il 20 per cento nell'arco di due sedute. Non sappiamo chi abbia voglia di «investire» su una squadra di calcio, che si chiami Roma, Lazio o Juve, o anche Manchester United. Ma le autorità di vigilanza che ci stanno a fare? E l'azionista stesso, cioè l'Unicredit, che di borsa se ne intende? Del resto i precedenti non mancano, visto che la Roma è sull'ottovolante da anni. Qualche esempio. Aprile 2008: voci su George Soros nonché su Mohamed al-Maktoum, sceicco del Dubai. Le azioni ovviamente volano, salvo schiantarsi subito dopo. Giugno 2009: «Roma vicina» alla cordata svizzero-tedesca di Vinicio Fioranelli. Altro decollo in stile F-16 del titolo giallorosso; altro atterraggio non proprio morbido. Per inciso Fioranelli, ex agente Fifa, è appena finito in manette. Luglio 2010: la famiglia Sensi inizia le trattative con Unicredit e le azioni riprendono quota. La domanda e semplice, perfino ingenua: chi ci guadagna? Perché che qualcuno ci guadagni è evidente, visto anche il bassissimo flottante della società. Nel frattempo continuano a sprecarsi le voci. Una di queste dice addirittura che l'ipotesi Abu Dhabi sarebbe stata accreditata ad arte (da chi?) per far scappare gli americani di DiBenedetto e pilotare la vendita in direzione Angelucci, il quale a sua volta sarebbe gradito ai poteri forti capitolini. Ipotesi peraltro contraddetta dall'incontro a New York tra gli offerenti americani ed i venditori di Unicredit, summit nel quale sarebbero stati messi a punto sia una spartizione di quote sia un piano industriale di rilancio. Di sicura c'è una considerazione: se questi magheggi potevano non stupire e venivano guardati con sussiego quando la Roma era dei Sensi, che dire ora che è in mano al gotha finanziario milanese? O forse quel gotha non ha tutti i quarti di nobiltà?