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di GIANFRANCO GIUBILO Ciao, vecio.

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Sarebberopassati quarantaquattro anni prima che l'Italia tornasse sulla vetta del mondo, a riconquistarla sarebbe stato Enzo Bearzot, friulano di ferro, con la sua giovane armata, nel Mondiale di Spagna. Un trionfo che rimane al primo posto, tra i quattro che hanno fatto la storia azzurra. Quelli del '34 e del '38 si erano giovati della virtuale assenza di una formazione brasiliana all'altezza dei valori espressi dal Paese che sarebbe diventato il primatista di allori iridati. Quello più recente, la conquista di Berlino con Marcello Lippi alla guida, era stato gratificato assai più dalla mano benevola della sorte che da reali qualità di gioco. Enzo Bearzot si era avvicinato alla Nazionale nel '75, prima come assistente di Fulvio Bernardini, con il quale avrebbe diviso per due anni la conduzione, prima di ritrovarsi da solo al timone. Sarebbe diventato primatista tra i Commissari tecnici con 104 presenze, sedici delle quali insieme con Fuffo, gentiluomo di altri tempi, una convivenza resa possibile dalla grande civiltà dei due protagonisti. Dopo il secondo posto dell'Azteca, otto anni prima, l'Italia aveva vissuto l'infelice parentesi del Mondiale tedesco, passato alla storia più per l'invettiva di Chinaglia nei confronti di Valcareggi che per il naufragio sofferto dalla Nazionale. L'avventura in Argentina era seguita dunque con palese scetticismo, si temeva di dover seguire la solita Italietta in barricata, avrebbe smentito tutti il nuovo timoniere, imponendo la sua squadra all'ammirazione dell'intero mondo del calcio. L'avrebbe probabilmente vinta, l'Italia, quella competizione, se non si fosse trovata a fare i conti con gli smaccati imbrogli della squadra di casa, facile procurarsi favori in un Paese ospitante mortificato da una dittatura feroce. Coraggiosi gli innesti di Paolo Rossi e Cabrini, blocco juventino promosso proprio da un granata doc come era sempre stato il tecnico, nel girone eliminatorio autentica lezione agli argentini. Poi, nella semifinale con gli olandesi, l'arbitro spagnolo Martinez ammonì nel giro di pochi minuti due pilastri del centrocampo, Benetti e Tardelli, i soli diffidati, l'Argentina non avrebbe gradito un nuovo scontro in finale con l'Italia. Anche se poi proprio un italiano sarebbe stato determinante: una vergogna l'arbitraggio di Gonella nella finale con l'Olanda, a consentire il trionfo ai generali assassini in tribuna. Soltanto un quarto posto per Bearzot, che però si era intanto assicurato unanimi consensi, avendo posto le basi per un'apoteosi che sarebbe stata celebrata quattro anni dopo, nei tempi canonici delle scadenze mondiali. Era dunque accompagnato da giustificata fiducia, il viaggio in Spagna, sulla scorta di un'immagine ritrovata e di un prestigio riconquistato, agli occhi del mondo, grazie a un gioco aperto e spesso spettacolare, anche perché alla schiera dei talenti si sarebbe aggiunto Bruno Conti, autentico genio calcistico. Pure, quel trionfo del Bernabeu sarebbe stato preceduto da una parentesi sgradevole, il gratuito linciaggio mediatico nei confronti degli Azzurri, al quale si era deciso infine di opporre uno sdegnoso silenzio. Ero stato uno dei pochissimi, allora, a schierarmi decisamente a fianco di Bearzot e dei suoi, ero francamente disgustato dalle invenzioni totali perpetrate ai danni di quei ragazzi dai comportamenti esemplari. Si era parlato di ingenti perdite al Casinò: che era su un'isola visitata dai giocatori al mattino, in orario di chiusura. Qualche buontempone aveva accennato a una storia gay, protagonisti Cabrini e Rossi, scherzo di pessimo gusto al quale però la stampa straniera aveva dato ampio credito. Motivi di risentimento non mancavano, dunque, ma Enzo Bearzot era stato bravissimo a blindare i suoi guerrieri, superando anche gli attacchi feroci per un girone di qualificazione non glorioso, ma infine produttivo. Sembrava un ostacolo quasi insormontabile, quel gironcino a tre con l'Argentina di Maradona e con il miglior Brasile di ogni tempo. La calda atmosfera del Sarria di Barcellona avrebbe prodotto il miracolo, rimandate battute le corazzate del Sud America, raggiunta la semifinale con livello di difficoltà notevolmente attenuato, in realtà la Polonia orfana di Boniek non avrebbe opposto resistenza. Ci attendeva, al Bernabeu, la Germania per l'atto conclusivo, ma stavolta era la storia a parlare, il ricordo più vivo quello della leggendaria semifinale di Città del Messico. I gol del solito Rossi, di Tardelli e di Altobelli a regalare una grande gioia a Sandro Pertini, in tribuna d'onore a testimoniare l'orgoglio della Nazione. Bearzot non è mai stato umorale come Marcello Lippi, che in Sud Africa avrebbe pagato duramente i debiti di riconoscenza verso gli eroi di Berlino, però colpevolmente insistendo in scelte dettate dal pregiudizio e contraddette dalla logica. Onesto in ogni suoi atteggiamento, quel presunto musone che prediligeva il jazz e la letteratura, non potè rinnegare gli artefici dell'impresa spagnola, ma soltanto perché non esistevano ricambi all'altezza, così che il secondo Mundial messicano era destinato al fallimento, puntualmente imposto all'Italia da quella Francia che si avviava a vivere un lungo momento di gloria. Lasciata nelle abili mani di Azeglio Vicini, suo fedele e capace secondo, il vecio si faceva da parte. Schivo, anche nella sua squisita disponibilità, Enzo Bearzot aveva riservato avarissime apparizioni agli eventi mediatici. Se ne è andato da gran signore, lo era stato anche nella vita.

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