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Scompare un pezzo d'Italia

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Correval'anno 1982, a palazzo Chigi sedeva Giovanni Spadolini, un presidente risorgimentale senza barba, che non deve aver mai dato un calcio in vita sua, tanto meno a un pallone. La formula di quei governi brevi e tristi era detta di pentapartito: Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli. Tante sigle, nessuna delle quali osava mettere il Tricolore nel proprio emblema. Con l'eccezione dei liberali: ma erano una minoranza, appunto. Niente bandiera, niente inno (non lo cantavano né i calciatori allo stadio, né i militari chiusi in caserma: le pubbliche feste del 2 giugno e del 4 novembre erano state abolite), niente brividi dietro la schiena, collettivamente parlando, per il tranquillo orgoglio del sentirsi appartenenti alla nazione. Ma in quell'orfanotrofio di italianità, in quell'epoca nella quale i leader politici stavano bene attenti a dire «paese», e con la minuscola, al posto di «patria» senza la maiuscola, in quel tempo e tempio di identità nazionale negata e di valori civili assopiti, spuntò la pipa di Bearzot sul pennone più alto e vuoto della Repubblica. Era un friulano, quindi persona di poche e sagge parole. Era un uomo della sana provincia italiana che non ha dimestichezza alcuna, né la vuole coltivare, col potere nel calcio, e col potere in generale. Era semplicemente un onesto, laborioso e silenzioso padre della patria che, facendo alzare la coppa del mondo, ruppe il tabù in Italia. Grazie a Bearzot, questo allenatore che appariva già vecchio a cinquantacinque anni, gli italiani tornarono a sventolare il verde, bianco e rosso in ogni piazza e contrada della Penisola. Tricolori nuovi e vecchi, con lo stemma sabaudo in mezzo o senza. Magliette azzurre cucite per l'occasione. Sfilate d'auto fino all'ultimo sentiero di montagna, fino allo sperduto lungomare. Balli non in maschera (giù la maschera per tutti!), perfino dentro le più belle fontane d'Italia: calpestare la cultura per amor di patria, che delitto divino. Patria e pallone, era qui la festa meravigliosa nell'era di Bearzot e dei suoi guerrieri sportivi dal volto umano. Perché in quella Nazionale così uguale alla Nazione, c'era più cuore che tattica, più classe che atletica, più arte che organizzazione. Noi siamo eternamente quelli là. Siamo Pertini che dice di no con l'indice ai suoi interlocutori nella tribuna d'onore («no», oggi non ce n'è per nessuno). Siamo Tardelli che urla come un bambino la vittoria incredibile. Siamo Martellini che ripete tre volte quel che tre volte eravamo, quella sera, diventati: campioni del mondo. È l'Italia di provincia che vince al novantesimo coi presuntuosi del pianeta, e quando tutti i pronostici le sono sfavorevoli. «Gli azzurri? Sarà tanto se passeranno il primo turno», dicevano gli altri. Invece col suo lavoro da tipica formichina italiana, una partita alla volta, il «Vecio» ci ha fatto sognare per sempre. Dall'11 luglio 1982 non è più proibito parlare di patria, cantare Mameli, vestirsi, perfino vestirsi di Tricolore. Con l'epopea di Bearzot e dei suoi ragazzi, s'è sbriciolato il muro che impediva agli italiani di guardare lontano e di guardare all'indietro: dove andiamo, da dove veniamo. Con la sua umiltà così «nostra», con quella modestia che nel corso dei secoli gli emigranti ieri e i ricercatori oggi hanno portato in giro per il mondo, profumandolo di italianità, con quella faccia da persona da cui avresti comprato un'auto usata e pure un grattacielo ancora da costruire, Enzo Bearzot ha rappresentato la svolta. Avevamo vent'anni, e poco più. Ma non si è mai giovani abbastanza per dire «grazie», quasi trent'anni dopo, a un grande vecchio, a un grande italiano.

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