Il Calcio ha mezzo secolo

E sono cinquanta. Diego Armando Maradona compie oggi mezzo secolo. Adesso il copione prevederebbe che raccontassimo le res gestae di Diego, le sue prodezze in campo, le giocate irripetibili, i gol impossibili come quello da centrocampo alla Lazio (io c'ero). Ma per fare ciò ci sono i cantores, gli aedi e poi in fin dei conti su Maradona si sono scritte le più belle pagine della poesia letteraria sportiva e pertanto il solo confronto intimorisce. No, non ci metteremo anche noi in coda in questo stanco rito che ormai ammorba. Non avrebbe senso e temiamo il raffronto. Potremmo anche lanciarci nell'infinita diatriba dello «sportivo che è cosa diversa dall'uomo», che vanno dati due giudizi differenti, che bisogna guardare l'uno e dimenticare l'altro. No, oddio: cadremmo in una nuvola di chiacchiere, nel più bieco frasifattismo. No, vorremmo che oggi - mentre si celebra questo compleanno - di Maradona si giudicasse l'attualità del pensiero. Sì, esatto. Come se fosse un intellettuale contemporaneo. Perché quel torrido luglio del 1984 Maradona arriva a Napoli e settantamila persone corrono alla stadio (io c'ero) per vedere semplicemente a questo ragazzo di quasi 24 anni che fa tre palleggi a centrocampo e dice quattro parole al microfono? Perché in quel momento Maradona è già una bandiera. Come lo è oggi Francesco Totti, per certi versi ancora lo è Alessandro Del Piero. L'esatto contrario di ciò che è oggi Ibraihmovic, una escort del calcio, quello del gol a cottimo, colui che ha mille maglie e nessun colore, non crede e ha un unico credo: i soldi. Diego in quel momento è invece ciò che Giorgio Chinaglia era stato poco prima. Un uomo, un simbolo, un orgoglio. Maradona arriva a Napoli da Barcellona, lascia una grande città e una capitale dal punto di vista calcistico, che sicuramente gli avrebbe potuto dare ogni cosa, per venire a Napoli, la feccia del pianeta. Una città uscita appena nove anni prima dal colera, devastata appena quattro anni prima dal terremoto. Viene a giocare nella fogna. La squadra lottava per non retrocedere in serie B. Fa una scelta coraggiosa e resiste alle lusinghe dell'avvocato Agnelli che l'avrebbe portato a Torino, alla Juve, l'odiata, odiatissima Juve, non subito (quell'anno è alle prese con una valanga di cassintegrazioni alla Fiat e sarebbe stato sconveniente spendere 13 miliardi di lire per uno che tira due calci al pallone), ma magari l'anno dopo. Decide, Diego, di scendere dall'Olimpo del calcio e andare nella suburra del mondo, un posto che assomiglia tanto alla sua Villa Fiorita, sobborgo di Buenos Aires. E da lì sfidare, un po' oniricamente e un po' come se fosse in preda agli allucinogeni, i santuari del pallone. Il Nord, le squadra del Nord italia. La Juve, certo. Ma anche il Milan e l'Inter e finanche il Verona. È come una marcia dei campesinos la sua. Un assalto dell'esercito degli straccioni di Valmy, pardon di Forcella. Il genio, l'estro, la fantasia contro i soldi, l'organizzazione teutonica-nordica-polentona, l'imperialità industriale. È il segno della riscossa del Sud, del Meridione defraudato, del Mezzogiorno dimenticato. E vince Diego. Vince sui campi e fa vincere una città, un pezzo d'Italia, un popolo che attendeva da almeno centoventi anni. È un Obama ante litteram. Yes, we can. Si può fare. Lui lo farà (io c'ero). E nessuno più dopo di lui.