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Dalle platee oceaniche degli anni '50 al disinteresse di oggi Ecco come ricchezza e discipline parallele hanno ucciso la boxe

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Nellastessa stagione, 80 mila spettatori affollavano lo stadio di Jersey City per l'incontro tra Jack Dempsey e George Carpentier. Anni avanti, era il 1956, lo stadio Olimpico di Roma apriva a forza i cancelli per la disputa del titolo mondiale tra il sordomuto italiano Mario D'Agata e il francese Robert Cohen. Quattro anni dopo, la conquista del titolo mondiale dei super leggeri tra il fuoriclasse italiano Duilio Loi e il portoricano Carlos Ortiz avrebbe richiamato a San Siro 61.000 spettatori. Fenomeni identici si verificavano a Londra come a Parigi, a Chicago come a Cincinnati. Nella notte del 17 aprile '67, con il territorio italiano privato della diretta televisiva per evitare il giorno dopo eccessi di assenteismo dai posti di lavoro, mezza Italia rimase comunque appesa alla radio per seguire dal Madison di New York l'esito del primo match tra Nino Benvenuti ed Emil Griffith. Nell'ottobre del 1971, migliaia tra tifosi, osservatori, giornalisti e operatori televisivi invasero l'africana Kinshasa per toccare in presa diretta quanto sarebbe accaduto su un ring che vedeva opposti Muhammad Ali e George Foreman. Fu, quello respirato tra gli anni Cinquanta e Settanta, sia negli Stati Uniti sia in Europa, per qualità di pugili, per capacità organizzative e pubblicitarie, per l'apertura di credito nei confronti della stampa, per seguito di appassionati, non ultimi i colossali interessi legati al prolifico e spregiudicato sottobosco delle scommesse, il periodo migliore del pugilato internazionale, al cui studio iniziarono ad accostarsi come disciplina scientifica, soprattutto nel mondo anglosassone, i primi osservatori sociologici. Furono stagioni che esaltarono una disciplina che tra la fine dell'800 e i primi decenni del ventesimo secolo aveva vissuto un periodo pionieristico in cui le ridondanze dell'epica avevano talvolta compromesso l'esattezza delle cronache e l'attendibilità degli eventi. Furono, quelle stagioni, progressivamente accantonate e, al tempo d'oggi, irrecuperabili. Tanti, e di varia origine, i motivi di un graduale deterioramento d'interesse. Un serpente che si morde la coda. Recesso di vocazioni tra le masse giovanili, con inevitabile assenza di personaggi di richiamo in una disciplina in cui il ritardo sociale e la voglia di riscatto hanno sempre costituito un'infallibile motivazione, e che le diffuse emancipazioni ambientali ed economiche hanno progressivamente intaccato: negli Stati Uniti, come in Italia, in Francia come in Inghilterra, i grandi pugili sono sempre nati da ambienti disagiati, mai dalle aule universitarie. Fuga di organizzatori prodighi di economie e di capacità d'investimento. In aggiunta, progressiva crescita promozionale di altre discipline sportive, comprese le infinite varianti offerte dalle arti marziali, e conseguente disaffezione dei grandi organi d'informazione, primi tra essi i potentati televisivi. Un esempio italiano a portata di mano: Pino Maddaloni, olimpionico di judo ai Giochi di Sydney 2000, avviato e cresciuto allo sport nel problematico quadro sociale campano di Scampia, ove fosse nato trenta-quaranta anni prima, con ogni probabilità si sarebbe affermato nel pugilato. E, abbandonata l'attività agonistica, sicuramente al pugilato, e non al judo, avrebbe avvicinato le centinaia di giovani che frequentano quotidianamente la sua palestra. A rendere infine ancora più critico il quadro complessivo della boxe, ruoli non marginali hanno giocato, nei decenni più recenti, le dissennate proliferazioni internazionali di sigle, di associazioni e di federazioni concorrenti nell'assegnazione di titoli mondiali o continentali, al punto da lasciare margini sempre più ridotti di credibilità a un movimento che, parafrasando Ennio Flaiano, sembra avere al momento bisogno più di contabili che di poeti. Provate a chiedere ai vostri amici chi sia Paul Malignaggi... eppure, l'italo-americano è stato campione mondiale dei super leggeri nel 2007 e 2008. Lontane, e dunque irripetibili, le stagioni in cui personaggi della letteratura come Jack London con i suoi Racconti di boxe, Gabriele D'Annunzio nel resoconto futurista dell'incontro tra Carpentier e Jeannette, Ernest Hemingway, Henry de Montherlant, o il Norman Mailer spettatore a Kinshasa in quello che viene considerato l'incontro più celebrato del secolo, Muhammad Ali versus George Foreman, scrivevano di imprese, di lotte selvagge e di uomini, di vincitori e perdenti, individuando nel mondo della boxe gli ambienti insostituibili per riproporre inalterati i miti dell'avventura e del coraggio.

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