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Venti secondi di storia

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Le Olimpiadi di Roma '60

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Venti secondi per consegnarsi alla storia dello sport. Chiudendo antiche cicatrici, sull'aristocrazia di due piedi s'inchiodò l'anima di mezza Italia. Mai la velocità nazionale era salita al vertice olimpico. Identità di una genesi rivoluzionaria, ne fu capace, alle 18 del 3 settembre di cinquant'anni fa, un compito ragazzo torinese che nelle due ore di intervallo tra semifinale e finale s'era sottratto alla tensione dell'attesa consultando nella solitudine dello spogliatoio, nell'imminenza di un esame universitario, il Trattato di chimica organica di Kaiser. Livio Berruti vinse la finale dei 200 metri uguagliando di nuovo, in 20"5, che l'elettronica avrebbe tradotto in 20"62, il primato mondiale realizzato in perfetta scioltezza in semifinale. Nata dall'intuito di Giorgio Oberweger, direttore tecnico federale, dall'assiduità d'assistenza di Giuseppe Russo, prodotta dalla forte promozione di base messa in atto sul fronte scolastico giovanile, la sua fu la prima affermazione olimpica di un atleta europeo sulla distanza, da sempre inalterabile terreno di conquista dei velocisti nordamericani, statunitensi e canadesi.   Fu estetica allo stato puro la calligrafia raffaellita disegnata quel pomeriggio da Berruti nella curva dell'Olimpico, che la pellicola ufficiale girata sui Giochi romani da Romolo Marcellini ripropone dopo mezzo secolo inalterata nella sua bellezza. Fu poesia il caleidoscopio di colombi mosso in concomitanza nel cielo dello stadio, profezia di un momento storico dello sport italiano. Fu poesia anche l'innocenza con cui si incrociarono il giorno dopo, e non oltre, lungo i viali del Villaggio olimpico e sotto famelici obbiettivi fotografici, le mani di Livio e di Wilma Rudolph, l'antilope d'ebano, ventesima di ventidue figli, salita dalla poliomielite dell'infanzia alla conquista di Roma. Quando Berruti tagliò il filo di lana trascinandosi dietro, storditi, tre neri statunitensi, oltre un nero francese e un bianco polacco, la sceneggiatura, la costruzione del mito, erano cosa fatta. E fu sorprendente, anni dopo, sottratta alla polvere degli archivi, il recupero di una lettera inviata nel 1956 da Torino, destinatario il centro di allenamento di Schio, con cui la severità sabauda del padre di un giovanissimo Livio intimava ai tecnici dell'epoca - mai irriverenza, mai trasgressione furono più provvidenziali - di limitare gli impegni agonistici del figlio ai 100 metri, pena il ritiro dall'attività atletica. Il 3 settembre coincise con la nona giornata dell'Olimpiade romana. La rappresentativa italiana s'era già affermata nel ciclismo, con il quartetto su strada formato da Antonio Bailetti, Ottavio Cogliati, Giacomo Forconi e Livio Trapè. Nell'inseguimento su pista con Luigi Arienti, Franco Testa, Mario Vallotto e Marino Vigna. Con Sante Gaiardoni nel chilometro da fermo e nella velocità. Con il tandem su pista di Sergio Bianchetto e Giuseppe Beghetto. Nella serata dello stesso giorno, dodici anni dopo l'impresa realizzata ai Giochi di Londra, la piscina del Foro Italico avrebbe assistito al successo del Settebello di pallanuoto. Si sarebbero aggiunte successivamente le affermazioni di Francesco Musso, Nino Benvenuti e Francesco De Piccoli nel pugilato. Di Giuseppe Delfino, l'uomo di ferro delle quattro medaglie d'oro olimpiche e dei sei titoli mondiali, e dello squadrone degli spadisti. Di Raimondo D'Inzeo, in binomio con il sauro Posillipo, nel concorso di salto a ostacoli. Tredici vittorie, dietro Unione Sovietica e Stati Uniti, e trentasei medaglie in totale: innegabile successo collettivo dell'organizzazione sportiva nazionale, e di quanti a essa dettero sostegno.

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