Tre incognite sulla stagione biancoceleste
Da un paio di giorni leggo (e ascolto) cose talmente positive sul conto della Lazio che, da vecchio tifoso geneticamente diffidente e con l'anima coperta di cicatrici, ho dovuto prendere due decisioni. La prima è di non unirmi al coro. La seconda è di dedicare un piccolo spazio quotidiano a rituali scaramantici e furiose grattate. Sarà che, come ho già avuto modo di spiegare ai miei correligionari, quest'anno il calcio in generale proprio non mi attizza, ma non bastano certo la mistica apparizione di Hernanes e la fine del tormentone-Ledesma a far svanire le mie perplessità sul conto della Lazio. Vedo infatti permanere tre problemi di fondo. Il primo è di natura ambientale. Non mi sembra, cioè, che l'evidente cambio di rotta del presidente Lotito possa bastare a ricucire il suo rapporto con la tifoseria, mentre per un pieno rilancio della squadra l'armonia società-supporter sarebbe fondamentale. Certo, Lotito deve dimostrare non solo sul mercato ma anche nel day-by-day di aver intrapreso un nuovo corso a tutto tondo. E tuttavia penso che cancellare anni e anni di dissapori e pregiudizi sarà possibile soltanto se saranno i laziali a tendere la mano al presidente. Il che mi sembra francamente di là da venire. Il secondo problema è di natura tecnica. La squadra ha guadagnato tantissimo in qualità e il mercato in uscita ha contribuito a risolvere in buona parte i conflitti interni e a rimuovere certe incrostazioni umorali. Però ai piedi buoni, o addirittura buonissimi, dei giocatori, specie quelli dei centrocampisti, mi sembra far difetto una caratteristica che il calcio moderno rende di anno in anno più indispensabile: il peso atletico. Pensate solo alla prodigiosa muscolarità che ha permesso all'Inter di risolvere in suo favore tante situazioni difficili. Insomma, non credo di poter essere accusato di cercare il pelo nell'uovo se dico che almeno un Boateng sarebbe servito come il pane. Il terzo problema - e lo dico sperando di non essere frainteso - è secondo me l'allenatore. Reja è un uomo d'onore e di buon senso. Ha esperienza e capacità di analisi. L'anno scorso ci ha salvati da sicura retrocessione e quest'anno è in buona parte a lui che si deve il nuovo clima squadra-società, a cominciare dalla metamorfosi di Lotito. Proprio perché ottimo interprete del calcio «tradizionale» (inteso nell'accezione più positiva del termine), però, Reja non può essere l'innovatore capace di restituire alla Lazio quella che è sempre stata la vera arma in più delle sue stagioni felici: la creatività.