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I sessant'anni di Panatta

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Tennis: Adriano Panatta, unico a battere Bjorn Borg a Parigi

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Il 9 luglio 1950, esattamente 60 anni fa, nasceva a Roma Adriano Panatta, ultimo grande campione del tennis italiano. Nel palmares dell'atleta capitolino, sbocciato nel 1970 con la vittoria sul mito Pietrangeli agli assoluti di Bologna, figurano un Roland Garros, un'edizione degli Internazionali d'Italia e l'unica Coppa Davis della storia azzurra. Successi che, nell'anno di grazia 1976, permisero a Panatta di issarsi fino al 4° posto del ranking mondiale, sdoganando definitivamente il tennis nel Belpaese. Allora come oggi, dopo il trionfo di Francesca Schiavone al Roland Garros, appassionati e praticanti della racchetta si moltiplicarono. Ma prima ancora di essere un tennista, Adriano è un romano legato a luoghi e tradizioni della sua città.   Adriano Panatta, lei abita a Trastevere, ma è nato al Flaminio? «Proprio così. Sono cresciuto a viale Tiziano, dove c'era la vecchia sede del T.C. Parioli. Ho visto costruire il villaggio olimpico, demolire il vecchio stadio Torino e sorgere il Flaminio. Ero un bambino, ma ricordo perfettamente gli anni '50». Dai primi passi ai trionfi degli anni '70, quando nacque anche la sua immagine da playboy? «Luoghi comuni del tempo. Sono felicemente sposato dal '75. Forse è un fatto anomalo: molti miei ex colleghi hanno avuto diverse mogli, io soltanto una, che però ne vale tre!»   La famiglia è stata importante nei suoi successi? «Molto. Il 1976 fu un anno splendido, grandi vittorie, emozioni uniche».   In primavera Internazionali d'Italia e Roland Garros. «Un cammino trionfale, superai Borg nei quarti (unico tennista capace di battere lo svedese a Parigi, ndr). Con Solomon, in finale, ero abbastanza sicuro di vincere».   Poi la discussa trasferta Davis nel Cile di Pinochet. Come nacque l'idea della maglietta rossa indossata in doppio? «Decisi insieme a Bertolucci. Voleva essere un segnale, una provocazione nei confronti del regime». Qualcuno disse che ne parlò con Enrico Berlinguer, allora segretario del Partito comunista italiano. «Non ho mai conosciuto Berlinguer. Lui fu bravo a sbloccare la situazione: ricevette una lettera del partito comunista clandestino cileno e convinse il governo a farci giocare». Lei ha vinto attaccando. Perché oggi nessuno scende a rete? «Il tennis è cambiato, è monotono negli schemi. Mi sorprendo solo guardando Federer e Nadal». Eppure la Schiavone ha mostrato che si può vincere variando. «Nel tennis femminile è ancora possibile, il ritmo è più basso». Dopo il ritiro si è dedicato ad altre attività. «Ho fatto un'esperienza in politica, mi piace tutto lo sport: il calcio, la Roma, la motonautica, ora gioco anche a golf». E poi passa molto tempo con i bambini. «Con Yuri Chechi, Andrea Lucchetta e Ciccio Graziani stiamo portando avanti l'iniziativa «Un campione per amico», insieme all'Inpdap sto organizzando i centri estivi in Calabria: esperienze fantastiche».   Oggi però festeggerà il suo 60° compleanno? «Non farò cose particolari, non amo le celebrazioni. Preferisco stare in famiglia».  

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