Quando il calcio bloccò l'Italia intera
Mezza Italia fuori casa al termine di una partita di calcio. Primi a riempirsi, con esodi da bassi e cucine, i vicoli. Immediatamente dopo, strade e piazze. Ceti e censi, tutti assieme, integrati e autoconvocatisi, da Barcellona Pozzo di Gotto a Sesto Calende e Voghera e Pordenone. Un'invasione chiassosa, una mobilitazione popolare a cielo aperto. Un fenomeno di partecipazione collettiva di dimensioni, più che insolite, epocali. Accadeva quaranta anni esatti ad oggi con il triplice fischio con cui il messicano Arturo Yamasaki Maldonado consegnava all'Italia il passaggio in finale nella Coppa del Mondo e, con esso, la carnalità di un rapporto tra undici giocatori in maglia azzurra impegnati nell'aria rarefatta di Città del Messico e milioni di connazionali, appesi a radio e televisori, trasformatisi di colpo in un'immensa agorà. Lo stadio che per molti divenne all'istante crocevia del mondo era l'Azteca, centocinquemila spettatori. La Coppa quella del 1970, l'Italia impegnata contro la Germania Ovest quella guidata da Ferruccio Valcareggi, un tecnico che aveva nella onesta schiettezza di provincia la sua arma migliore e che aveva ereditato una nazionale uscita stordita dal kappao contro la Corea del Nord. La squadra, quella collaudata di Burgnich e Facchetti, Riva e Rivera, Mazzola e Domenghini. Prima della semifinale dell'Azteca, l'Italia s'era imposta sulla Svezia, pareggiato con Uruguay e Israele, vinto sul Messico. Quel mercoledì 17 giugno, con una rete di Boninsegna all'ottavo minuto, l'avvio sembrò rassicurante. Il punteggio restò immutato fino alla doccia fredda con cui Schnellinger, difensore, vecchia conoscenza del nostro calcio, al terzo minuto di recupero, e quindi a tempo praticamente scaduto, rimise in piedi il risultato aprendo ai tempi supplementari. Che furono realmente da cardiopalma. S'iniziò al primo minuto con una rete firmata da Gerd Müller, un rognoso killer d'area di rigore. Replicò quattro minuti dopo Burgnich, altro difensore. Fu poi il turno di Riva ricondurre gli azzurri in vantaggio, e ancora di Müller riequilibrare un incontro apparentemente avviato a risolversi, secondo prassi dell'epoca, con il lancio della monetina. Ma fu un tocco spietato nato dall'algida creatività di Rivera, appena un minuto dopo, Sepp Maier da una parte e il pallone dall'altra, a gelare i tedeschi, a consegnare all'Italia l'ingresso in finale e ad imporre alla municipalità della Capitale messicana l'installazione, sulle mura dello stadio, di una targa celebrativa di una delle partite più entusiasmanti mai vissute nella storia del calcio. Quattro giorni dopo quell'esito folgorante, con l'unica realizzazione di Boninsegna ed il poker degli avversari, l'Italia mise nelle mani di Pelé il terzo titolo mondiale conquistato dal Brasile. E la stessa squadra, impetuosa protagonista appena qualche giorno prima all'Azteca e suscitatrice della pazzia collettiva scatenatasi nelle piazze italiane, venne accolta al Leonardo da Vinci da insulti ed oscenità. Tutti contestati, ad eccezione di Gianni Rivera, il demolitore delle speranze tedesche, il cui impiego in finale un'improvvida decisione di Valcareggi aveva confinato negli ultimi sei minuti di gara.