Quel vuoto di imprenditori nel calcio
La guerra fredda si è chiusa con il trionfo del mercato, ma il mercato bisogna farlo funzionare. Pensavo a questa semplice verità, pochi giorni or sono, quando lessi che per la partita della Roma contro i greci, nell'ambito della Coppa UEFA (e, si badi bene, non della Champions), il nostro Olimpico era stato pacificamente preso d'assalto da una folla di 55 mila appassionati. Non erano pochi gli ateniesi in trasferta ma la preponderanza dei tifosi giallorossi, naturalmente, restava schiacciante, senza contare naturalmente gli abbonati alla tele-trasmissione «premium». L'entusiasmo, l'attaccamento anche sentimentale dei tifosi romanisti per quella che non pochi di essi chiamano addirittura «una fede», sono rimasti fortissimi nonostante il diluvio di «dirette» TV e contagiano anche strati sociali meno popolari come attori del cinema e del teatro, i dirigenti ministeriali e di partito. Come si spiega, allora, che per finanziare la campagna acquisti e la gestione del club giallorosso la generosissima ed oculata famiglia di Franco Sensi ha dovuto indebitarsi con le banche e rischia tuttora di perdere la titolarità delle azioni sociali? Il mondo imprenditoriale italiano, che pure guarda a Roma, naturalmente, con grande interesse, non trova il modo di potenziare con un contributo di capitali, di pubblicità e di «sponsorship», una società sportiva che difende i colori di una grande città che è circondata da una notorietà planetaria e che dimostra tangibilmente la sua vitalità calcistica, muovendosi - nonostante le attuali difficoltà - ad alti livelli nella classifica del campionato. Mi sembra incredibile, anche perché accade in un periodo caratterizzato da una larghissima maggioranza di centro-destra che dovrebbe favorire l'incremento delle iniziative imprenditoriali anche nel campo dello sport, che oggi mobilita grandi interessi anche nel campo del sistema informatico. Ancor più preoccupante dei casi romanisti è quanto accade a Torino, dove il presidente della società granata Cairo, già collaboratore e amico di Silvio Berlusconi, dopo aver salvato il gloriosissimo club della serie B ha visto precipitare nuovamente la squadra tra i cadetti, collezionando brutte figure e allenatori in serie. Di conseguenza, pochi giorni fa, ha annunciato che vende il Torino per il quale assicura di aver bruciato una trentina di milioni di euro che avrebbe preferito investire in una bella barca da diporto. Per una causale ma significativa coincidenza, proprio in questi giorni sono state rese note le decisioni del Tribunale nei confronti di tre dirigenti del Napoli che, sei anni fa, ne hanno determinato la retrocessione tra errori di conduzione, mancati pagamenti, procedure di fallimento e diavolerie varie che sono costate carissime al club azzurro e ad uno dei presidenti senza contare l'amara esclusione dal vertice dell'ingegner Ferlaino dopo anni di risultati positivi o addirittura brillanti. L'impressione che il cronista ritrae da questi avvenimenti è (senza abbandonarsi a critiche distruttive) che l'organizzazione del calcio-spettacolo, così come va evolvendosi in Italia nell'epoca della comunicazione digitale, debba essere ripensata dal gruppo dirigente dell'ente federale e di lega nonché dei presidenti di club e non solo per la trasformazione del vecchio stadio che pure è fondamentale, ma soprattutto nella prospettiva di un'autentica impresa.