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Fair play all'italiana: piace ma divide

Calcio

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La bella notizia per questo 2009 è che le buone maniere esistono ancora, la cattiva notizia è che anche quelle invece di unire, dividono sempre di più. Gli italiani e il calcio sono fatti così: polemici, mai contenti, ma appassionati. E il «fair play all'italiana» non può sottrarsi alle regole, anomale, di questo Paese. Era il 2004, vigilia dell'incontro con la Lazio, quando Fabio Capello, allora allenatore della Juve, tuonava così: «Non butteremo più la palla fuori quando un avversario rimarrà a terra. Ci fermeremo solo se qualcuno si farà male alla testa». Ecco il gioco corretto all'italiana: qui, per dirla con le parole di Capello, il fallo tattico diventa fallo di svenimento, qui si usano i falli subiti per riprendere fiato, qui si simulano colpi alla testa quando il gomito dell'avversario ha sfiorato a malapena lo stomaco. Dov'è il fair play nei cori razzisti degli italiani contro un altro italiano, colpevole di una certa arroganza, d'accordo, ma soprattutto di essere un nero che parla bresciano? E dove sono le buone maniere di un Mourinho fiume in tempesta davanti a una critica o di un cittì della nazionale che urla contro i tifosi esausto delle loro insistenze per avere un beniamino nella squadra tanto amata? La correttezza, il rispetto dell'avversario (e dei tifosi, verrebbe da aggiungere) e delle regole dovrebbero resistere dentro e fuori dal campo. Il fair play dovrebbe essere un imperativo, più che un decalogo. Per fortuna, però, qualche bella storia di sport esiste ancora e Giuseppe Bepi Pillon ne sa qualcosa. Contestato, acclamato, amareggiato, l'allenatore dell'Ascoli è stato accusato di eccesso di fair play in casa ma anche nominato per il Premio Fair Play della Fifa dall'estero. L'Herald Tribune ha riconosciuto il merito a una squadra che lotta nella seconda divisione italiana, «lontana dai radar delle prima pagine», di aver dimostrato che la lealtà nel calcio esiste ancora. Eppure, questo Pillon è lo stesso che si è rifugiato due ore al Del Duca per sfuggire alla rabbia dei suoi tifosi. Furiosi per la sconfitta dell'Ascoli per 3-1 contro la Reggina, come ha detto il presidente Benigni, ma pure innervositi da un gesto esagerato. Questi i fatti. È il 14', Carlos Valdez vuole mettere la palla in fallo laterale, Sommese non ha capito, intercetta il pallone, i reggini fanno segno di fermarsi, l'arbitro Pinzani non interviene, Sommese serve Antenucci che va in rete. Scoppia la rissa e la Reggina resta in dieci. A questo punto Pillon dice ai suoi di lasciar segnare la Reggina e la partita ricomincia dall'1-1. Forse rimediare a un torto facendone commettere un altro non è la soluzione, ma i giocatori, da uomini, sbagliano e a volte riparano alla loro maniera. Clamoroso fu il gesto di Paolo Di Canio nel dicembre del 2000 quando fermò il gioco prendendo in mano il pallone perché si era accorto che il portiere dell'Everton era a terra. Non segnò un gol fatto per il West Ham ma guadagnò l'onore. Quel Di Canio conosciuto per i suoi gesti non sempre gentili verso curve, avversari e perfino arbitri, vinse il premio Fair Play dell'anno. Gli inglesi, poi, sono noti per il loro naturale gioco corretto. Così nel 2007 i giocatori del Leicester City lasciarono segnare il portiere del Nottingham Forest per riprendere la partita dall'1-0 su cui era stata sospesa per un attacco di cuore di un giocatore del Leicester. Tornando in casa, i romanisti ricordano anche il gesto di Daniele De Rossi che in Roma-Messina nel 2006 si fece annullare un gol piazzato con la mano, confessando il misfatto a Bergonzi. Gesti più o meno spontanei, belle storie non sempre a lieto fine (vedi caso Pillon), ma la strada per recuperare un'umanità che spesso si lascia fuori dagli stadi è ancora lunga.

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