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Fausto Coppi morì all'ospedale di Tortona alle 8.45 del 2 gennaio 1960.

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Cinquantaanni da un mondo sparito, cinquanta anni di distanza dalla giovinezza di una stagione sportiva che fu sete e disciplina prima ancora che avventura, cinquanta anni da vicende, imprese e suggestioni diversamente recuperabili se non nell'emotività evocativa. Coppi morì dunque alla soglia dei quarantuno anni, quando la raggiunta agiatezza economica e sociale, malgrado sofferte evenienze familiari ne avessero da tempo intaccato l'intangibilità, gli consentiva da tempo di sorridere al bambino cresciuto tra le arcaiche asperità contadine della campagna del basso Piemonte. Il ciclista di Castellania fu tra i testimoni e i protagonisti più visibili della ripresa nazionale del dopoguerra, portandosi dietro il cuore e le emozioni di un'Italia appesa alla precarietà delle cronache diffuse dalla radio e ad una figura di sportivo e di uomo che fu in anticipo rispetto al resto del prossimo per la vastità delle imprese, per la sua moderna interpretazione dello sport e per la sua diversità umana e sociale, sempre controllata, mai ostentata. Quella diversità lo rese anche vittima della bigotta società dell'epoca, quando la sua relazione fuori dagli schemi tradizionali con Giulia Occhini - la “dama bianca” incontrata nel 1948 all'arrivo delle Tre Valli Varesine, resa pubblica ed enfatizzata nel 1953 sul traguardo iridato di Lugano, lui marito di Bruna Ciampolini e padre di Marina, lei sposata con il medico Enrico Locatelli - fu all'origine d'una penosa situazione in cui si incrociarono, senza risparmio, falsi pudori, moralismi, scandali e implicazioni giudiziarie, culminati, il 26 agosto 1954, con l'irruzione dei carabinieri a Villa Carla, in quattro giorni di carcere e successivo domicilio obbligato per la donna e nel ritiro temporaneo del passaporto per il ciclista. Come accadde in periodi temporalmente non dissimili nelle vicende travagliate che videro coinvolti personaggi del cinema quali Roberto Rossellini e Ingrid Bergman e del jet set internazionale come Maria Callas e Aristotele Onassis, la vita di Coppi fu anche questo. Ma sono particolari che molto aggiungono all'uomo e al personaggio e poco o nulla alla grandezza di un campione amato in Italia e osannato come un connazionale perfino dall'astiosa diffidenza dei tifosi francesi, inclini a privilegiare l'uomo di Castellania, accogliendone la superiorità, piuttosto che aprirsi all'applauso per Gino Bartali, vincitore del Tour a dieci anni di distanza, nel 1938 e nel 1948, ma colpevole d'aver sbattuto la porta in faccia agli organizzatori della corsa transalpina come reazione agli insulti ricevuti sui tornanti pirenaici dell'Aspin e del Peyresourde, ritirandosi, nel 1950, e con lui l'intera spedizione italiana, con la maglia gialla praticamente sulle spalle. Infiniti furono i traguardi su cui Coppi lasciò un segno che neppure la mediocrità della dimessa cultura sportiva d'oggi riesce a scalfire, traguardi celebrati dalle migliori scritture dell'epoca, da Curzio Malaparte a Bruno Roghi, da Orio Vergani a Gianni Brera, sul cui equilibrio analitico, quello cioè dell'uomo di San Zenone Po, pesò tuttavia negativamente un culto senza pudori nei confronti del campione, al punto da mortificare in maniera plateale la grandezza di un altro colosso della strada quale fu Bartali. Alcuni di quei traguardi hanno segni tangibili. Come quello lasciato nel Giro del 1953 sulle nevi dello Stelvio, quando il campione italiano strappò la maglia rosa dalle spalle dello svizzero Hugo Koblet a ventiquattro ore dalla conclusione della corsa. Come quello celebrato quattro anni prima dalla voce radiofonica di Mario Ferretti lungo i 192 chilometri di fuga solitaria, attraverso i cinque passi di montagna della tappa Cuneo-Pinerolo, nel Giro d'Italia del 1949, anno in cui Coppi vinse in successione Giro, Tour e, il 31 agosto, il titolo mondiale, riportato all'Italia ventuno anni dopo il terzo successo segnato da Alfredo Binda nel 1932. Schivo, composto e riservato nella vita privata, agonisticamente inavvicinabile nei momenti di grazia, esposto a crisi improvvise e ad una serie disgraziata di incidenti fisici, colpito dalla fatalità in uno dei principali affetti personali dalla scomparsa del fratello Serse, caduto in corsa nel Giro del Piemonte del 1951, Coppi dovette anche a tale parziale ma ricorrente fragilità la somma di affetti e di passioni che soprattutto negli ultimi anni di attività ne segnarono la vita. Fino a quelle ore del gennaio 1960, quando genti interminabili, confuse nell'anonimato degli adepti, si raccolsero attorno ad una bara che una semplice pasticca di chinino avrebbe potuto evitare e che un'imperdonabile inadeguatezza delle terapie rese al contrario fatale, aprendo la strada ad un mito su cui, a distanza di cinquanta anni, è obbligo inchinarsi.

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